Osada, Toshihiro (ed.): The Parthenon Frieze. The Ritual Communication between the Goddess and the Polis. Parthenon Project Japan 2011-2014, 175 S., zahlr. S/W-Abb., 25,7 x 18,2 cm, ISBN : 978-3-85161-124-3, 69 €
(Phoibos Verlag, Wien 2016)
 
Compte rendu par Massimiliano Papini, La Sapienza Università di Roma
 
Nombre de mots : 3159 mots
Publié en ligne le 2016-11-22
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Lien: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=2811
Lien pour commander ce livre
 
 

 

          Il volume presenta i risultati della terza tappa di una ricerca avviata nel 1994 sul fregio del Partenone e, in particolare, sui suoi contenuti narrativi (“Parthenon Project Japan”). Secondo quanto esplicitato nelle righe introduttive dal curatore Toshihiro Osada, gli autori coinvolti nell’iniziativa, storici dell’arte e storici, sono accomunati dalla volontà di sfidare quegli indirizzi di studio (esemplificati a pp. 11-12) che in modo troppo netto individuano nell’arte greca una proiezione dell’ideologia contemporanea – ma non è esattamente questo il solo intento che pervade gli articoli.

 

         Va anticipato che tutti concordano su un punto: il fregio effigia, di certo non alla maniera di un documento fotografico, plurimi momenti della festa panatenaica nel duplice aspetto di processione e agone, ciò in contrasto anche con la recente riproposizione di un’interpretazione mitologica del suo presunto «enigma» focalizzato sulla storia di Eretteo in un libro di Joan Breton Connelly, una tesi sulla quale le poche recensioni sin qui edite (François Queyrel, Mary Beard) hanno espresso condivisibili perplessità. Nel panorama degli studi, malgrado le tante sfumature esegetiche dipendenti da ogni studioso, tale lettura iconografica elementare dello sviluppo del fregio in relazione alle Panatenee pare ormai abbastanza assodata ed è la più convincente malgrado persistenti obiezioni (le più serie contestazioni sono oggi mosse da Burckhardt Wesenberg, per cui vd. infra). Eppure, talune scene o dettagli continuano a destare incertezze di vario genere, sia per la loro unicità senza altri confronti iconografici sia per l’impossibilità di precise rispondenze nel lacunoso dossier letterario ed epigrafico a disposizione sullo svolgimento della festa, composto di testimonianze un po’ disomogenee e appartenenti a periodi differenti.

 

         Nel primo articolo, lo stesso curatore enfatizza come il fregio sia da indagare nella cornice della vita religiosa della città e della comunicazione rituale tra dèi e adoranti sotto la loro stabile protezione, il che mette in dubbio che costituisca un autoritratto collettivo di Atene e un’esaltazione della sua cultura democratica tale da comporre quasi un equivalente dell’epitaffio di Pericle nella parafrasi di Tucidide. Certo, come messo in luce soprattutto in un magistrale saggio di Luigi Beschi del 1984, nella critica anglofona scarsamente valorizzato anche quando citato, l’unità rappresentativa del fregio, «il più grande rilievo votivo della storia», è costituita dallo spazio non reale ma religioso dell’offerta; nondimeno, la scontata constatazione del suo primario valore religioso e rituale non esclude il fatto che tale ornamento contribuisca a costruire il “mito” di Atene anche in un’accezione ideologica e politica. «Anche con l’intelligenza abbiamo trovato moltissime occasioni di riposo dalle fatiche, usando farlo con gli agoni e con i sacrifici religiosi che si tengono durante tutto l’anno…», dice il Pericle tucidideo (II, 38, 1), a riprova di come anche la «vita rilassata» quale occasione di coesione civica rientri nell’elogio ottimistico della concezione democratica della città. Inoltre, l’esaltazione degli ordinamenti, vecchio e nuovo, della democrazia per mezzo del sistema basato sui numeri quattro e dieci (un rimando alle tribù pre-clisteniche e clisteniche) costituisce il principio compositivo che informa soprattutto i lati sud e nord del fregio: un sistema vettore di ideologia che spesso la critica odierna continua incredibilmente a ignorare o a non valorizzare in modo adeguato, come accaduto nella monografia di Jenifer Neils del 2001 e come avviene anche in questo volume. Tuttavia, continua Osada, a confronto con l’effettivo svolgimento delle Panatenee, se la raffigurazione rinuncia agli opliti, il forte risalto della cavalleria, dal sapore aristocratico, adombrerebbe una sorta di ode dell’élite, altro buon motivo per dubitare del fatto che il fregio voglia glorificare la società democratica. Certo, al di là del fatto che di qui traspare l’orgoglio per la nuova forza militare introdotta sotto Pericle, poiché la cavalleria di trecento unità fu incrementata (tramite una tappa intermedia di seicento?) a mille tra il 446-445 e il 431 a.C., non è opportuno il volere irrigidire la scelta della parata dei cavalieri nelle maglie di formule come “democrazia” e “aristocrazia”. D’altronde, ricordiamoci come secondo Senofonte (Eq. Mag. 3, 2; Eq. 11, 8-9) fosse una bella esperienza per gli dèi e per gli spettatori mortali guardare la cavalleria compiere il tour completo di tutti i santuari e delle statue nell’agora per poi lanciarsi al galoppo per tribù sino all’Eleusinio e ripercorrere al passo il cammino inverso; i cavalli procedenti in posizione rampante erano tanto stupefacenti da concentrare su di sé l’attenzione di chiunque guardasse, giovane o vecchio; del resto, in pittura dèi, eroi e uomini erano rappresentati su magnificenti cavalli da parata. Senofonte scrive sì a circa sessant’anni di distanza dal completamento del Partenone, ma le sue parole valgono anche per il fregio, la cui cavalcata doveva rallegrare gli dèi e Atena in particolare: a lei i cavalli piacevano tanto da essere venerata come Hippía. Comunque sia, Osada, al pari di molti precedenti commentatori, nel raffronto tra la realtà della festa e la sua traduzione in immagine, sottolinea ulteriori divergenze: nella realtà i meteci svolgevano diverse mansioni (donne in funzione di skiadephoroi, diphrophoroi e hydriaphoroi e uomini come skaphephoroi), ma non sono riconoscibili sul fregio (ma un’iconografia peculiare dei meteci è altresì sfuggente, non solo sul Partenone); al corteo partecipavano le delegazioni delle città alleate della lega delio-attica, ma quest’ultime sono assenti, un’omissione per Osada spiegabile con una volontà di eliminazione degli elementi eccessivamente «realistici». Ma a importare non è il «realismo» o meno, ma un’immagine selettiva che predilige la concentrazione sulla comunità dei cittadini.

 

         Il secondo contributo di Akiko Moroo, meno direttamente legato al tema portante del volume, si incentra sull’origine e sullo sviluppo dell’acropoli quale luogo per l’erezione di iscrizioni pubbliche a partire dal primo quarto del VI sec. a.C., con ovvie differenze da quelle private. Che all’indomani del sacco persiano e negli anni dell’Atene cimoniana l’acropoli sia rimasta per lo più non costruita si giustifica per l’autrice con la necessità di realizzare «altrove» urgenti lavori di ricostruzione (p. 37, nota 28) e non in rispetto al giuramento di Platea, giudicato di dubbia autenticità, una posizione contestabile e comunque meritevole di ben altri approfondimenti, più volte tentati nell’ultimo decennio tramite la riconsiderazione dei passi letterari al cospetto degli indizi archeologici (da ultimi si vedano P. Vannicelli e E. Lippolis, Il giuramento di Platea: aspetti storici e storiografici/ Il giuramento di Platea: gli aspetti archeologici, in L. M. Caliò, E. Lippolis, V. Parisi [a cura di], Gli Ateniesi e il loro modello di città, Roma 2014, pp. 77-104). La Moroo si cimenta principalmente con un’ispezione del «new epigraphic habit» dall’inizio del V sec. a.C. e delle iscrizioni talora di controversa datazione; se sulla stele dell’aparche e sul possibile luogo di collocazione si raccomanda un articolo di Maria Chiara Monaco (in Annuario della Scuola Archeologica Italiana di Atene 87, 2009-2010, pp. 249-285), i decreti di stato inerenti soprattutto ad affari di politica estera si infittiscono dagli anni Trenta del secolo, più o meno in contemporanea con il completamento del cantiere del Partenone, che contribuì a rendere l’acropoli un luogo privilegiato per l’esibizione della dynamis di Atene e del suo diritto all’egemonia.

 

         Il terzo breve contributo di Rui Nakamura ritorna al fregio al fine di una ricostruzione 3-D dell’epifania dei dodici dèi, realizzata a occhio e con l’ausilio di fotografie, e il modello risultante è stato già esposto in più sedi, British Museum compreso: gli dèi sono raffigurati non solo di fronte e di profilo, ma anche di tre quarti, per cui segue un’analisi ravvicinata di ognuno di loro a partire da E24-E27 (Hermes, Dioniso, Demetra). Le gambe di Dioniso si intrecciano a quelle di Demetra, un rapporto spiegabile per l’autrice con il fatto che Dioniso fu introdotto ai misteri eleusini secondo la tradizione del V sec. a.C. (obiezioni però a p. 125, insistenti più su ragioni estetiche che su un punto di vista iconologico: vd. infra), per cui l’immagine denota la stretta intimità tra le due divinità; ma ella non si accontenta, perché la resa della profondità spaziale può mirare ad altro, il che vale parimenti per le due coppie al centro, Hera e Zeus, Atena ed Efesto. Ecco perché la studiosa finisce per approvare lo spunto avanzato sin dal 1892 (A. H. Smith) e rinverdito nel 1999 dalla Neils sulla necessità di concepire un arrangiamento semicircolare degli dèi. La ricostruzione tridimensionale compiuta da parte del team giapponese si spinge però oltre nell’esaminare il volume e la profondità di ogni corpo, persino tramite il recupero della posizione dello struttura scheletrica (vedi la Demetra a fig. 6, benché un simile denudamento della sua «vera carne», per dirla con Canova, lascia un po’ perplessi).

 

         Se una conclusione come «the gods of the Parthenon frieze demonstrate the sculptors’ acute understanding of the realistic body at a time of rising naturalism» (p. 54) pecca di qualche ingenuità concettuale, all’interno dello stesso volume un altro interessante contributo a distanza di una sessantina di pagine a firma di Emiko Tanaka si occupa di nuovo della spazialità del fregio. Due regole basilari sin dal VII-VI sec. a.C. si riscontrano nella sovrapposizione delle figure (da lei battezzate «the overlap for a rank»  e «the overlap for a file»), che ne visualizzano non solo la collocazione nello spazio, ma anche le relazioni reciproche con una finalità narrativa. L’autrice analizza pertanto in dettaglio la parata dei cavalieri sul fregio (e non solo), sottolineando come il loro arrangiamento in generale non miri a restituire una reale disposizione spaziale: le sovrapposizioni, con qualche incongruenza, o i distanziamenti delle figure, malgrado i tentativi in direzione di una prospettiva tridimensionale, paiono piuttosto dipendere dai bisogni estetici e ritmici di una composizione bidimensionale – oltre che da un vivo interesse per i gruppi di figure, quali gli dèi del lato orientale (sui gruppi si era soffermato Bernhard Schweitzer nell’esemplare studio del 1939 sull’arte del Maestro del Partenone). Insomma, per la Tanaka gli scultori del fregio si sono limitati all’espressione della relazione spaziale tra singole figure, senza puntare alla visualizzazione del rapporto tra esse e lo spazio da loro occupato (p. 129), un’annotazione condivisibile che getta di conseguenza ombre sull’effettivo bisogno di una distribuzione semicircolare dell’assemblea divina come delineata da Rui Nakamura.

 

         Per tornare alla sequenza degli articoli, Tomoyo Nakamura esamina dapprima la grande varietà di vesti, elmi e armi dei cavalieri (e l’assenza di monotonia, più in generale, è uno dei tratti che più caratterizzano la potente capacità inventiva all’opera sul fregio) e passa poi al riscontro possibile della presenza di “tenie” in un numero maggiore di casi di quanto generalmente creduto, oltre a quelli – non sempre chiaramente discernibili – emersi tramite l’indagine di Akira Mizuta in una monografia del 2011; la rassegna è seguita da una tabella riassuntiva di pratica consultazione.

 

         In un volume simile non poteva poi mancare un contributo incentrato sulle due scene al centro del lato orientale, le più dibattute in assoluto anche negli ultimi anni, quelle con la sacerdotessa di Atena e con l’“offerta del peplo”. Parecchie sono sinora state le congetture in particolare sulla figura maschile (l’arconte re, come per lo più supposto, malgrado l’assenza di fonti su un suo coinvolgimento diretto nella specifica cerimonia?), sul sesso della figura con “clamide” gettata su entrambe le spalle (ma è decisamente meglio riconoscervi un fanciullo ministrante) e soprattutto sull’identità delle due presunte diphrophoroi, riconosciute invece come arrhephoroi – fanciulle tra 7 e 11 anni – da Mariko Sakurai anche sulla scorta del libro di Christiane Sourvinou-Inwood del 2011. Per inciso, su tutte le questioni e, in particolare, sulle figure nn. 34-35 è di nuovo intervenuto B. Wesenberg, Parthenonische Peploshäresie (Ostfries 34-35), in D. Graen, M. Rind, H. Wabersich (a cura di), Otium cum dignitate. Festschrift für Angelika Geyer zum 65. Geburtstag. Studien zur Archäologie und Rezeptionsgeschichte der Antike, Oxford 2014, pp. 65-81, con un’identificazione del sacerdote con un kataniptes della stirpe dei Praxiergidai nella cornice del rito dei Plynteria, un’idea che, malgrado lo sforzo molto erudito, non si fa preferire all’opzione panatenaica, almeno alla luce della logica sottostante all’intero fregio. A ogni modo, grazie a un’autopsia, la Sakurai condivide l’ipotesi espressa già nel 1995 da Wesenberg in merito all’oggetto nella mano sinistra dell’“arrhephoros” n. 32 (fiaccola o thymiaterion) e all’identificazione della scena con il rituale degli Arrephoria in parte svelato da Pausania, provando allora a spiegare lo scopo dell’unione nell’immagine dei due momenti festivi (gli Arrhephoria si tenevano nell’ultimo mese del calendario attico, precedente quello della festa panatenaica, e due arrhephoroi potevano assumere un ruolo non solo all’inizio, come suggerito dalle antiche testimonianze, ma anche nella fase di completamento del peplo). Se così, perché quelle fanciulle reclutate nel ceto abbiente erano rappresentate in una scena al centro del fregio ai giorni della democrazia radicale periclea? Per l’autrice la scelta deve avere avuto anche una connessione con quella legge del 451 a.C. per cui non poteva godere del diritto di cittadinanza chi non fosse nato da entrambi i genitori cittadini; poté allora avvenire che giovani ateniesi di modeste condizioni sposassero uomini di stato sociale superiore rispetto a quello dei loro padri. Ora, è innegabile, al di là delle tante spiegazioni addotte per la sua stesura, che la legge rafforzò il ruolo del demos nella formazione del corpo cittadino e della purezza etnica degli Ateniesi, ma non risulta molto comprensibile la pregnanza del suo legame con le “arrhephoroi”; sfugge perciò la pregnanza di una conclusione del genere: «the Arrephoria on the peplos scene, would have functioned as an encouragement to the daughters of Athenian parents, even those from non-elite classes, to identify themselves as part of the gentrified demos» (p. 89). All’opposto, chi scrive, in forma stringata, ha seguito un’altra spiegazione per i nn. 31-32 in Fidia. L’uomo che scolpì gli dei, Roma-Bari 2014, pp. 97-99, partendo dall’assunto che gli oggetti portati dalle due figure (non per forza da considerare delle bambine, tanto più che sono vestite come la sacerdotessa e sono di statura superiore al fanciullo insieme al sacerdote) siano sedili con cuscini e non canestri; a proposito di quest’ultimi, nella critica più recente sta però emergendo la tentazione di un’identificazione con delle balle di lana avvolte in un panno, che, insieme al completamento del peplo, denoterebbero l’inizio dei lavori di tessitura da parte delle due arrhephoroi, fissato però dalle fonti in coincidenza dei Chalkeia (oltre a Burkhard Fehr nel 2011, vd. ora Mathias Steinhart, Die Künste der Athena – Handwerk und Politik am Ostfries des Parthenon, in Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst 65, 2014, pp. 7-27).

 

         Alle varianti delle vesti delle donne in corteo sul fregio orientale («la rappresentazione delle vesti sul Partenone pare scaturire da una inesauribile sorgente di inventiva», aveva notato Schweitzer) è dedicato l’articolo di Chieko Shinozuka, con almeno tre o quattro categorie: peplo con mantello nei settori meridionale e settentrionale, in quello meridionale peplo con chitone manicato sottostante nonché mantello e, infine, himation portato su un altro indumento; un indumento che nel tratto meridionale può essere identificato con un chitone, mentre nella porzione settentrionale non è escludibile il peplo. In breve, il peplo predomina sul lato orientale, posto naturalmente che il termine che usiamo (“peplo”) sia appropriato per l’antichità e non risponda piuttosto a una nostra creazione artificiale. Tuttavia, come si spiegano le sottili diversità di abbigliamento? Già Beschi le aveva notate, sottolineando come potessero differenziare le fasce d’età all’interno dell’ampia categoria delle ergastinai (lato sud per donne sposate, lato nord per parthenoi). Viceversa, l’autrice preferisce riprendere, con leggere modifiche, uno spunto di J. B. Harrison (1989), secondo la quale la soluzione del chitone portato sotto il peplo, nel settore meridionale, va interpretata come una veste moderna, sofisticata e confortevole, di contro alla semplicità d’un tempo, incarnata per converso dal solo peplo con mantello. In particolare, la sua attenzione è attirata dalle cinque figure alla testa del corteo nel settore settentrionale (E50-51 e E53-55) con sontuosi pepli dal kolpos abbondante in grado di richiamare una «old era», ossia l’epoca regale di Atene, una connotazione simbolica oggi rafforzabile anzitutto mediante il confronto con le stesse vesti delle korai dell’Eretteo, per la cui spiegazione l’autrice si avvale di quanto ipotizzato vent’anni fa da Andreas Scholl (choephoroi in atto di svolgere libagioni presso il recinto funerario di Cecrope); che il peplo con mantello retrostante sia consono a personaggi della storia mitica sarebbe poi già confermato dal gruppo della pandionide Procne con Itys attribuito ad Alcamene e per lo più datato al 430-420 a.C. In breve, siccome durante le operazioni di ricostruzione dell’acropoli notevole fu l’interesse per i tempi eroici e le origini autoctone di Atene impressi nella topografia sacra, il costume di quelle cinque donne può rimandare appunto al passato regale, ovviamente senza che ciò implichi una loro identificazione con principesse; piuttosto, anche in virtù della vicinanza a quei quattro eroi eponimi (E43-46) che, secondo dubbiosi tentativi di riconoscimento degli anni Settanta del secolo scorso, costituirebbero la generazione più antica all’interno del gruppo dei dieci, esse intendono solo vagamente evocare le eroine dei primordi di Atene: d’altra parte, anche le figlie di re ateniesi poterono come arrhephoroi o ergastinai intessere il peplo per Atena e come canefore guidare il solenne corteo panatenaico. La presunta evocazione è però sospetta: il peplo con mantello accompagna le raffigurazioni femminili anche nel repertorio delle stele funerarie attiche e nelle lekythoi a fondo bianco, ed è questa la ragione che aveva spinto proprio Scholl a considerare gli abiti un segno del loro stato di parthenoi – Procne non è pèrò una parthenos.

 

         Il volume, chiuso da un articolo di Akira Mizuta con un dettagliato confronto della documentazione grafica di Jacques Carrey con i resti delle lastre, si profila utile e riesce a dare un’idea dello stato dell’arte anche grazie alla pressoché completa conoscenza della bibliografia più recente; il suo punto di forza risiede nell’esame di singoli dettagli più che in novità riguardanti la lettura complessiva del fregio, malgrado l’intento programmatico manifestato nell’introduzione, che sembra stare più a cuore al curatore che ai suoi coautori.

 

         In definitiva, il fregio inscena una festa panatenaica alla presenza di tutti i segmenti del corpo civico, maschi e femmine, giovani, maturi e anziani (ma prevalgono specialmente gli efebi, la cui forza costituiva una garanzia per il futuro), e si trasforma anche in una celebrazione patriottica della città e dei suoi tropoi (tratti di carattere), per dirla con il Pericle tucidideo. Quindi ben scriveva Beschi: «se nei valori formali del fregio si evidenzia la genialità di un grande maestro progettatore e coordinatore come Fidia, nei contenuti narrativi si rivela…l’ideologia di un grande politico come Pericle, il committente».

 

 

 

Indice

 

T. Osada, The Parthenon Frieze – Display of Piety and Privilege, p. 11

 

A. Moroo, The Origin and Development of the Acropolis as a Place for Erecting Public Decrees: The Periclean Building Project and Its Effect on the Athenian Epigraphic Habit, p. 31

 

R. Nakamura, A 3-D Recreation of the Gods on the Parthenon Frieze. The Bodies and Space of the “Invisibles”, p. 49

 

T. Nakamura, The Clothing and Armour of the Horsemen and Warriors on the Parthenon Frieze, p. 61

 

M. Sakurai, The Peplos Scene of the Parthenon Frieze and the Citizenship Law of Perikles, p. 83

 

C. Shinozuka, Myth and Ritual. The Garments of the Maidens on the Parthenon East Frieze, p. 91

 

E. Tanaka, The Concept of Space in the Parthenon Frieze, p. 119

 

A. Mizuta, Looking at the Parthenon East Frieze with Jacques Carrey, p. 139