Villari, Elisabetta (a cura di): Aby Warburg, antropologo dell’immagine. Pagine 144, ISBN: 9788843070947, Prezzo: € 16,00
(Carocci, Roma 2014)
 
Compte rendu par Laura Fanti, Université Libre de Bruxelles
 
Nombre de mots : 2346 mots
Publié en ligne le 2017-02-28
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Lien: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=2472
Lien pour commander ce livre
 
 

 

          Negli ultimi anni, come spiega Claudia Cieri Via in chiusura del volume, la figura di Aby Warburg (1866-1929) è divenuta oggetto di una riflessione più attenta negli studi1 volti a mettere in evidenza la portata della sua eredità ma, in particolar modo, la complessità dei suoi metodi d’indagine. L’approccio warburghiano non implicava l’instaurazione di una mera interdisciplinarità, ma comprendeva, piuttosto, un insieme di strumenti e criteri, spesso intuitivi, che avrebbero cambiato la storia dell’arte, la storia delle immagini e la nozione stessa di cultura e di sistema culturale.

 

          Gli studi condotti da Warburg lo portarono «a connotare in termini antropologici le sue ricerche sul movimento, sull’espressione, sul pathos, sul corpo, sull’ornamento e sulla memoria che avevano il proprio medium nell’immagine e attingevano al pensiero di studiosi che fra Ottocento e Novecento avevano posto le basi per una teoria dell’arte del XX secolo: da Darwin a Vignoli, da Vischer a Schmarsow, da Nietzsche a Burckhardt, da Usener a Lamprecht, da Vignoli a Boas, da Gottfried Semper a Riegl» (pp. 126-127).

 

          Elisabetta Villari, con le giornate warburghiane genovesi (2005-2008) di cui il testo in oggetto non è che un aspetto, desidera inserirsi nel dibattito internazionale che stima Warburg come precursore nel dialogo antico – antropologia - storia dell’arte, ma anche studiare i rapporti che discipline distanti tra loro possono avere con il lavoro dello studioso tedesco (pp. 8-9).

 

          Il volume comprende un insieme di saggi che ruotano attorno agli studi e alle intuizioni che Warburg ebbe in merito alla lettura delle immagini non specificamente storico-artistica o estetica ma antropologica, dunque immagini intese come prodotto culturale dell'uomo.

 

          Partiamo dall’intervento di Andrea Pinotti (Iconologia dell'esitazione in Aby Warburg), dove si rielaborano il concetto dell'esitazione e la sua iconologia, letti come segni dell'idea warburghiana dell'indeterminatezza dell'immagine. Pinotti parla di una “biologia dell'immagine”, affiancando Warburg agli studi naturalistici e a Darwin; questo accostamento aiuterebbe a comprendere il portato della “distanza” nel pensiero dello studioso: «Il ricorso a uno schema neurofisiologico sembra dunque alludere a una funzione della figurazione artistica volta al disinserimento di un riflesso automatico nella relazione stimolo-risposta: l'immagine introduce la possibilità di una procrastinazione della reazione» (p. 29). Molto convincente il paragrafo Antropomorfismo e animazione con il quale Pinotti ci avvicina alla complessità del sistema warburghiano, fatto anche di simbolismo, di studi sull'empatia, di fisiognomica, sistema che porterà lo studioso a definire l'atto artistico come oscillante «tra una immaginazione che tendenzialmente si identifica con l'oggetto, e una razionalità che cerca invece di distanziarsene» dunque «equidistante tanto dal modo di cogliere gli oggetti tipico dell'immaginazione, quanto da quello caratteristico della contemplazione concettuale»2 (p. 37).

 

          L'inedito di Benedetta Cestelli Guidi (L'antico in bianco e nero: il progetto di allestimento della Gispoteca di Amburgo) è volto a mostrare come fosse intenzione di Warburg smantellare i sistemi settecenteschi e ottocenteschi di classificazione e di ordinamento museale. Come la sua visione dell'antico fosse demo-etnografica, fondata maggiormente sull'attenzione ai manufatti (exempla) e contro alcune pratiche in uso già dal Settecento, come l'uso dei calchi (p. 59); decisamente anti-winckelmanniano, orientato a una lettura pedagogica del Museo, intrecciata, nel caso in questione, all'istituzione di una cattedra di Archeologia all'Università.

 

          Cestelli Guidi continua il suo saggio ricostruendo l'allestimento per la sala dei gessi della Kunsthalle di Amburgo: più spoglio del precedente, teso a cogliere l'essenzialità delle opere, in un atteggiamento modernista (p. 53), dove il movimento della scultura del Fauno danzante diventa «sigla vitale e anticlassica, e cioè folklorica» (p. 57). Opposto al culto della nudità, Warburg, come prevedibile «orienta l'esposizione su una visione emotivamente tesa, patetica, piena di impulsi vibranti come quelli che animano il gesto del Fauno, collocato ora in posizione centrale, e la Niobe, il cui panneggio mosso e aderente al corpo riflette l'elemento vitale e l'impulsività in una spirale di intensificazione dell'emozione che l'antichità è ancora capace di comunicare pur nella distanza temporale» (p. 58).

 

          Lo studio si conclude sulla collaborazione di Warburg con Thilenius alla scelta del titolare della cattedra di Archeologia, scelta che ricadrà su Berthold Laufer (1876-1934), non un archeologo dell'arte o un filologo, ma un antropologo comparativista (p. 61).

 

          Gioachino Chiarini con Orfeo allo specchio: ermetismo e alchimia nella Siena del secondo Quattrocento si pone un po' lateralmente rispetto al complesso degli interventi, ma non per questo non offrendo un contributo di notevole interesse. È Adamo o Orfeo l'uomo che si specchia seduto su un ceppo, circondando da animali di ogni sorta, raffigurato sul pavimento della chiesa di S. Domenico a Siena? Tutto farebbe pensare ad Orfeo, anche i raffronti con altri modelli iconografici, tranne la presenza dello specchio e la nudità del personaggio, modellata su un disegno di Andrea Bregno, come segnalato a Charini da Marcella Marongiu (p. 72). La presenza di un cratere sulla cornice del commesso marmoreo è letta come rimando al cratere ermeneutico (p. 75), il ché sarebbe in linea con altre produzioni senesi (Ermete Trismegisto di Giovanni di Stefano nel Duomo di Siena) e con la sepoltura, nella stessa cappella, di Marco Bensi, medico del marchese Niccolò d'Este, molto vicino al sapere ermeneutico che permeava la città all'epoca. Anche la macchia ai piedi dell'uomo, un sole nero, e le fasi lunari in alto rimandano a quel sapere e alla coincidentia oppositorum (p. 75). L'interpretazione dello specchio appare un po' più forzata: «l'uomo (Adamo?) non può accontentarsi di tenere sotto controllo e di dominare la natura in ogni suo aspetto (vedi gli animali), ma deve cercare di risalire a Dio guardando più a fondo in se stesso, ciò che è reso dall'immagine nello specchio: essendo fatto a immagine di Dio, attraverso la propria immagine egli può iniziare la strada che risale a quella di Dio, a Dio stesso» (p. 77).

 

          Il saggio di Annamaria Ducci (Altri atlanti di immagini: Henri Focillon e la vitalità delle forme) è il più ricco e il più limpido, nonostante la spinosità del tema trattato. L'autrice propone un documentato e stimolante parallelo/confronto tra Warburg e Henri Focillon (1881-1943), oltrepassando la consueta tradizione che vorrebbe vedere nel maestro francese solo un esponente del formalismo, nonostante egli fosse attratto anche dalle immagini popolari e dalla sociologia dell'arte. La massima tangenza tra i due, Ducci la segnala in questo passo, che vale la pena citare nonostante la sua lunghezza:

 

          Per Warburg e Focillon, infatti, la vita degli stili non è il sistema armonico e per così dire “pulito” proposto dalle tradizionali periodizzazioni artistiche. È assai probabile che ambedue gli studiosi riflettessero su questo aspetto tenendo conto della nozione di “residuo vitale” (lebensfähige Reste) originariamente avanzato da Jacob Burckhardt in una delle lezioni sul Rinascimento professate a Zurigo nel 1855-56, propedeutiche alla Civiltà del Rinascimento in Italia (1860). Per Focillon le immagini non sono puri sintomi di un periodo, ma funzionano da attivatori della coscienza storica; l'opera d'arte non è soltanto un fattore del processo culturale, ma essa stessa incide sulla storia in forme e modi che non sempre sono evidenti, ma che dobbiamo cercare di svelare3.

 

          I due si allontanano nel personale rapporto con l'opera d'arte: Warburg percepiva una distanza da essa, arrivando a dire di non “temerla”, Focillon, nato e cresciuto in un milieu artistico, intrattenne con l'opera un rapporto più intimo e di vicinanza. Inoltre, nel discorso sulla trasmissione e sulla sopravvivenza, che porta il francese a vedere il mondo medievale quale fonte inesauribile di rinascite e persistenze, insensibile a quell'antico che tanto animava Warburg.

 

          Elisabetta Villari interviene nell'introduzione e in I saggi di Aby Warburg sugli arazzi come “veicoli tessili mobili”. Nella prima circoscrivendo l'oggetto di studio e presentando lo stato dell'arte degli studi warburghiani, nel secondo interrogando - utilizzando, a nostro avviso, anche il metodo inferenziale di Baxandall - gli arazzi fiamminghi del XVI secolo di proprietà della famiglia Doria-Pamphilj (prima a Roma e oggi a Palazzo Doria Pamphilj a Genova) che raccontano le imprese di Alessandro Magno.

 

          Gli arazzi sono oggetto di diverse stratificazioni di interpretazioni e di informazioni, alcune ancora da chiarire, ma secondo Villari, costituiscono «il filo rosso del suo lavoro di storico e critico d'arte e di antropologia delle immagini» (p. 106). La studiosa interroga dunque gli arazzi in questione e, con un'analisi ermeneutica, arriva a ricostruire l'interesse dell'epoca per Alessandro Magno e per l'Oriente, mettendo l'accento sulla validità delle ipotesi già fatte da Warburg (Contadini al lavoro su arazzi di Borgogna in Rinascita del Paganesimo antico), il quale vedeva in questi “veicoli mobili” l'intreccio del fascino esercitato dal Medioevo e dall'antico: «L'attenzione modernissima alla visione di un Oriente medievale dove la memoria delle crociate interagisce con la rappresentazione dell'antico e la tradizione araba della leggenda di Alessandro Magno assume tutta la sua importanza» (p. 114). Proponendo altresì originali interpretazioni, come quando coglie nella raffigurazione della carica di un cannone, un programma iconografico discendente da Carlo il Temerario (di Borgogna), il quale modernizzò la sua artiglieria anche per l'assedio di Milano del 1447 (p. 116).

 

          In conclusione, auspichiamo che Aby Warburg antropologo dell'immagine contribuisca ad animare il dibattito sull'eredità del maestro amburghese e sulle prospettive aperte dai suoi studi, in particolare per gli storici dell'arte. In pubblicazioni originali e non meramente di riflessione storica.

 

          Il titolo del volume suscita tutta una serie di aspettative, che in parte rimangono deluse, non sempre, infatti si evincono le ragioni e le modalità con le quali Warburg approccia le immagini in quanto prodotto culturale, allo stesso modo, sia che sitratti di opere d'arte sia di prodotti etnografici, devozionali, ecc. che è la direzione indicata da David Freedberg (1989) e poi da Hans Belting, in particolare nel suo Antropologia delle immagini (2001).

 

          In Italia sarebbero necessarie una serie di riflessioni e di iniziative attorno alla questione dell'antropologia dell’immagine: il nostro paese manca di studi sistematici e teorici a riguardo, nonostante l'interesse suscitato dagli studi warburghiani e nonostante il vivo interesse per la disciplina4, la quale, pur caratterizzandosi per la sua permeabilità e capacità polarizzante, ed essendo, per sua natura, costola della storia dell'arte, avrebbe bisogno di un orientamento critico volto a distinguerla da altre discipline, a partire dalla fenomenologia dell’immagine e dall’antropologia dell'arte, con le quali si trova necessariamente e costantemente a dialogare.

 

          Difficile trovare delle inesattezze bibliografiche o dei refusi, come in tutte le pubblicazioni dell'editore in questione, tuttavia ci permettiamo di segnalare una piccola imprecisione riguardante gli estremi della mostra di Rogier van der Weyden ai Musées Royaux di Bruxelles (p. 112), costretta a fermare i battenti ben due mesi prima della chiusura ufficiale per ragioni tecniche (il 21 novembre del 2013 e non il 26 gennaio del 2014). Notizia che da gennaio ad ottobre, data dell’edizione del libro, avrebbe potuto essere inserita.

 

 


1 Si citano i convegni Image et anthropologie a Parigi (estremi non forniti né rintracciati in rete dalla sottoscritta) e Le forme del pensiero attraverso le immagini, Sapienza, Università di Roma, del 2001, la giornata di studi Art et anthropologie a Villa Medici, Roma 2002, Warburg, antropologo dell'immagine, Genova, i cui interventi sono in parte riprodotti nel volume in questione. Le pubblicazioni: H. Belting, Bildanthropologie. Entwürfe für eine Bildwissenschaft, Wilhelm Fink, München 2001 (ed. it. Antropologia delle immagini, a cura di S. Incardona, Carocci, Roma 2011; ed. fr. Pour une anthropologie des images, Gallimard, Paris 2004); «L'homme», n. 165, janvier-mars 2003 (Image et anthropologie, con la prefazione di Carlo Severi); B. Cestelli Guidi (a cura di), Storia dell'arte e antropologia, numero monografico di «Ricerche di Storia dell'arte», n. 94, 2008. Naturalmente ci riferiamo solo agli ultimi quindici anni, senza citare interventi di spessore di studiosi come Georges Didi-Huberman et David Freedberg, quest'ultimo tra i primi ad aver catalizzato l'attenzione sull'importanza dell'immagini come portatrici di messaggi simbolici al di là del loro valore estetico (The power of images. Studies in the History and Theory of Response, The University of Chicago Press, 1989; ed. it. Il potere delle immagini, Einaudi, Torino 1993; ed. fr. Le pouvoir des images, G. Montfort, Paris 1998).

2 A. Warburg, Introduzione in Id. Mnemosyne. L'Atlante delle immagini (1929), in Id., Opere, II. La rinascita del paganesimo antico e altri scritti (1917-1929), a cura di M. Ghelardi, Nico Aragno, Torino 2008, pp. 819-920.

3 Si veda la p. 86.

4 Si afferma ciò nonostante l'interesse per Warburg e la “scienza senza nome” (R. Klein, 1970) fosse attivo già dagli anni Settanta, come ricorda Elisabetta Villari nella prefazione citando le riflessioni di Salvatore Settis, Giorgio Agamben e Alessandro Dal Lago, quest'ultimo intitolò anche un numero di «aut-aut» Aby Warburg e l'antropologia (p. 11 e nota).

 

 

 

Indice

 

Prefazione di Elisabetta Villari p. 7-12

Introduzione di Elisabetta Villari p. 13

1. Aby Warburg: antropologo dell’immagine? p. 13-19

2. Le metamorfosi di un ritratto postumo di Aby Warburg p. 19-24

1. Iconologia dell’esitazione in Aby Warburg di Andrea Pinotti

Vicino e lontano/Dal riflesso alla riflessione, e viceversa/Antropomorfismo e animazione/Metafora e analogia p. 25-41

2. L’antico in bianco e nero: il progetto di allestimento della Gipsoteca di Amburgo di Benedetta Cestelli Guidi

Aby Warburg e la nuova declinazione dell’archeologia novecentesca/Il parere di Aby Warburg/Il progetto di allestimento della Gipsoteca amburghese: l’Apollo del Belvedere vs. il Fauno danzante/Da storia dell’arte antica ad archeologia preistorica: lo scambio con Georg Thilenius/La scelta di un antropologo per la cattedra di Archeologia amburghese: Berthold Laufer p. 43-63

3. Orfeo con lo specchio: ermetismo e alchimia nella Siena del secondo Quattrocento di Gioachino Chiarini p. 65-78

4. Altri atlanti di immagini: Henri Focillon e la vitalità delle forme di Annamaria Ducci

Prologo/Contatti tra due mondi/Geologia morale/Forme vive, immagini in movimento/Sopravvivenze medievali/Atlanti francesi/«Londres, 10 février ’37» p. 79-101

5. I saggi di Aby Warburg sugli arazzi come “veicoli tessili mobili”  di Elisabetta Villari

Il saggio riconsiderato/Aby Warburg e gli studi sugli arazzi borgognoni/Il saggio del 1913/Un’allegoria sfuggita a Warburg/La permanenza dell’antico/Le feste e la continuità con l’antico p. 103-122

6. Postfazione. Aby Warburg e il Nachleben delle immagini di Claudia Cieri Via p. 123-132

Bibliografia p. 133-142

 
N. B. : Laura Fanti prépare actuellement une thèse de doctorat intitulée "Le Symbolisme belge et l’Italie: production artistique, discours critique et transferts culturels entre 1880 et 1920", sous la direction du professeur Denis Laoureux (Université Libre de Bruxelles).