Angiolillo, S. - Giuman, M. - Pilo, C. (a cura di): Meixis. Dinamiche di stratificazione culturale nella periferia greca e romana. pp. VII-236, LV tavole b/n e VIII a colori, 17 x 24 cm, ISBN: 978-88-7689-270-7, 85 €
(Bretschneider, Roma 2012)
 
Compte rendu par Massimiliano Di Fazio
 
Nombre de mots : 2591 mots
Publié en ligne le 2014-08-28
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Il volume raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Cagliari nel 2011 e dedicato al tema “Il sacro e il profano”. La prima cosa che colpisce è la mancanza di una introduzione, che invece sarebbe stata utile per spiegare le circostanze che sono alla base dell’opera: l’unico contributo di insieme invece si trova alla fine del volume, a firma di Mario Torelli, e ne riparleremo più avanti. Il titolo, in compenso, offre una precisa traccia di lettura: meixis, mescolanza, che è lo stato culturale più normale (e non certo la inesistente pretesa di purezza che ancora oggi ogni tanto viene sostenuta); meixis indagata nelle aree periferiche rispetto alla due culture centrali del mondo antico, la greca e la romana. Gli esempi scelti sono dunque tutti relativi ad aree che in antico ebbero forti contatti con le culture classiche: Etruria, Campania, Puglia, penisola iberica; ma la parte del leone è giocata dalla Sardegna, verosimilmente a ragione del fatto che il convegno si è svolto a Cagliari.

 

          Si inizia dunque subito in medias res con un contributo di Paolo Xella su una questione annosa e molto dibattuta: la funzione dei tophet. Come noto, questi cimiteri per infanti sono diffusi in tutta un’ampia area di cultura punica, ma la loro interpretazione ha suscitato in passato molte polemiche: da un lato vi è chi sostiene che gli infanti sepolti in queste aree fossero vittime sacrificali, secondo la consuetudine punica che conosciamo dalle fonti letterarie (e solo da quelle); dall’altra parte, altri studiosi ritengono che i tophet fossero normali aree necropolari, e che l’interpretazione sacrificale sia suggestionata dalle fonti classiche, che però sono spesso di parte. Xella era già intervenuto più volte in passato, e in questa occasione fornisce una analisi più ampia per dimostrare (non senza punte polemiche) che la lettura “normalizzante” è insostenibile, e che invece si deve riconoscere nei tophet aree di sepolture particolari, selezionate, e dunque verosimilmente di infanti immolati alle divinità. Più precisamente, Xella propone che queste immolazioni fossero legate a momenti eccezionali, di particolare gravità. L’impressione è che le nuove riflessioni sul tema facciano pendere l’ago della bilancia verso la interpretazione sacrificale, ma che allo stesso tempo sia ancora necessario riconsiderare il tema ripartendo dagli aspetti teorici: cosa si intende per sacrificio umano? (1).  

 

          Il secondo contributo è firmato da Marco Giuman e Chiara Pilo, ed ha al centro una specifica forma vascolare: il kyathos. Si tratta, come noto, di una forma che tra il VI ed il V secolo a.C. viene prodotta in Attica ma è destinata pressoché esclusivamente ad un mercato straniero, cioè quello etrusco. L’intento dei due autori è quello di prendere in considerazione il database di tutti gli esemplari noti (538) per fornire uno studio completo: il contributo presentato nel convegno è da intendersi solo come una presentazione preliminare di un lavoro più ampio in corso. Le questioni affrontate sono numerose, a partire dallo stesso nome del vaso, perché il termine kyathos è associato a questa forma solo in tempi moderni. Si passa poi alla funzione, ovvero al tipo di uso prevalente, che è legato al consumo cerimoniale del vino, con tutto il conseguente aspetto di prestigio e di emulazione di un modello ideologico di simposio. Viene infine affrontato l’aspetto molto spinoso delle decorazioni che arricchivano queste produzioni, e che si distinguono per un livello generalmente medio-alto e di buona accuratezza, anche se i temi appaiono piuttosto ripetitivi. I soggetti, in coerenza con l’uso conviviale, sono prevalentemente di tipo dionisiaco, e più in generale sembrano richiamare i valori profondi della città (greca? etrusca?), guerra e caccia su tutte. In definitiva, si tratta dell’ “antipasto” di un lavoro che si presenta piuttosto promettente.

 

          Ancora temi iconografici in territori di meixis sono al centro dell’interesse di Marco Minoja, che si occupa della ceramica campana a figure nere, e ancor più particolarmente della presenza di un altare in questo tipo di produzione. Minoja lavora da anni con competenza su questi temi, muovendosi con sensibilità iconografica ma al limite con l’iconologia, che è lo strumento molto in voga da qualche decennio negli studi di antichistica, in particolare di Etruscologia, per cercare di decifrare il significato dell’enorme patrimonio di immagini che l’arte etrusca ci ha donato, e che spesso in assenza di testi letterari risulta difficile da interpretare. Chi scrive in generale è abbastanza diffidente nei confronti di questi tentativi, salvo i casi in cui al centro dell’attenzione vi sia un corpus di immagini e di relativi supporti coerente. Esemplare in tal senso è ancora la lettura del corpus dei rilievi chiusini offerta da Bruno d’Agostino più di vent’anni fa (1). Sulla scia di questo approccio corretto, Minoja cerca le chiavi interpretative non fuori dalla ceramica a figure nere ma sempre all’interno, riuscendo dunque a mettere bene in luce gli aspetti dionisiaci e demetriaci della imagerie esaminata.

 

          Françoise-Hélène Massa-Pairault dedica il suo contributo ad una tomba di recente scoperta (anni ’60 del ‘900) nel territorio di Tarquinia, e nota col nome di “Tomba dei Pigmei”. Il lavoro è basato su un riesame autoptico della struttura e delle sue importanti ma purtroppo mal conservate pitture, datati al passaggio tra il V ed il IV secolo a.C. L’A. parte da una rassegna degli studi precedenti, per sottolineare alcuni aspetti dell’insieme pittorico. L’analisi, a detta della stessa A. (p. 58), lascia aperte diverse soluzioni, e sarebbe necessario un più approfondito esame. Un punto rilevante è comunque il legame, visto dalla Massa-Pairault, tra le pitture della tomba e i cambiamenti sociali che le città etrusche vissero proprio nel momento di passaggio tra V e IV secolo, cambiamenti sociali che sarebbero rappresentati dai personaggi a cavallo raffigurati su una parete della tomba, che vengono interpretati come una eteria.

 

          Dall’Etruria ci si muove alla Puglia con il saggio di Enzo Lippolis sul santuario di Saturo nel territorio di Taranto. A mio giudizio, si tratta di un saggio esemplare. Si apre con una riflessione di metodo sull’archeologia del sacro, sul modo in cui le società precristiane potevano concepire il rapporto tra sacro e profano. Si passa poi ad esporre in maniera chiara e sintetica i dati degli scavi effettuati nel contesto del santuario a partire dal 2007. Infine, si cerca di trarre le opportune conclusioni dai dati presentati. Il sito riveste un particolare interesse anche sul piano del modello, poiché offre una situazione di santuario centrale per un territorio dipendente da Taranto, consentendo dunque di esplorare anche i rapporti con il centro.

 

          Una équipe spagnola (Ricardo Olmos, Carmen Rueda, Arturo Ruíz, Manuel Molinos, Francisco Gómez, Carmen Rísquez) presenta un interessante complesso necropolare di Piquía (Arjona), nella provincia di Jaén. In particolare l’attenzione si concentra su una sepoltura a camera datata al I secolo a.C. Il motivo di interesse sta nel fatto che i recenti scavi hanno permesso di recuperare in questa tomba un eccezionale corredo di ceramica attica di fine V e IV secolo a.C., che oltretutto sembra mostrare una sorta di coerenza materiale ed iconografica: si tratta infatti di sette crateri, più un frammento di kylix. I crateri sono decorati con una specie di antologia dei principali temi culturali e mitologici greci: simposio, centauromachia, imprese di Eracle, nozze, palestra. Gli A. ipotizzano che la presenza di questi esemplari attici in una tomba di qualche secolo posteriore sia il frutto consapevole di una operazione culturale attraverso la quale l’aristocrazia iberica tende a costruire un passato, un lignaggio, una propria memoria, creando un quadro mitologico che possa legittimare il proprio potere. Ipotesi molto suggestiva, che ben si iscrive in un momento, come quello attuale, di grande entusiasmo per gli studi sui meccanismi della memoria culturale. Anzi, forse avrebbe giovato alla ipotesi proprio un maggiore confronto con i lavori di questo ambito (gli studi ormai classici di Assmann, Connerton etc.). Ma anche in questo caso si tratta di un lavoro preliminare, di cui dunque aspettiamo con curiosità i prossimi sviluppi.

 

          Con un titolo molto suggestivo, “Un’epica senza Omero”, Paolo Bernardini ci porta infine in Sardegna, aprendo la seconda metà del volume che è interamente dedicata a questa splendida isola. L’articolo di Bernardini è un breve affresco che si basa molto sui numerosi studi condotti dall’A. nel corso dei decenni sulle tante interferenze culturali presenti nella storia antica della Sardegna: Greci, Fenici, Oriente. Una Sardegna terra di un’epica senza Omero, ovvero senza fonti letterarie, ma che è possibile ascoltare attraverso le sue straordinarie testimonianze artistiche in pietra e ferro. Al centro della riflessione vi è un eccezionale complesso, quello delle statue di Monte Prama, a poca distanza dal golfo di Oristano. Si tratta di un gruppo di statue di dimensioni colossali, delle quali è dibattuto tutto: dalla datazione, che oscilla tra il Bronzo finale ed il VI secolo, al significato. Bernardini propende per un orizzonte cronologico compreso tra l’820 ed il 760 a.C., un momento caratterizzato da forti interrelazioni con l’elemento fenicio. I personaggi raffigurati sarebbero gli antenati divinizzati, da cui discendono i gruppi gentilizi sepolti nelle tombe.

 

          Da Oristano alla provincia di Cagliari: il sito di Bruncu Mogumu è presentato da Maria Rosaria Manunza e Danila Artizzu. Si tratta di un sito collinare, “luogo alto” ma anche cerniera tra diverse aree, ruolo che si può seguire per diversi secoli a partire dal tardo Bronzo. Notevole, ma anche forse ancora da precisare, la presenza di attività religiose nel sito già nel bronzo finale, che sarebbero indiziate da frammenti di spade votive nuragiche; tra le attività religiose che sembra si possano ricostruire per le epoche successive (dopo l’VIII secolo) spiccano cerimonie che prevedevano riti di libagione e accensione di fuochi. A conferma dell’importanza della posizione, il sito venne poi rioccupato in età altomedievale.  

 

          Alfonso Stiglitz presenta alcune interessanti novità sulle attestazioni del dio Bes in Sardegna: si tratta di alcuni fittili provenienti da un complesso nuragico nel territorio di Oristano. Questi nuovi rinvenimenti offrono lo spunto per una opportuna rassegna di tutte le testimonianze della presenza di Bes sull’isola, che si attestano a circa una ventina, ben distribuiti sul piano spaziale e temporale. Il problema maggiore è dato dal fatto che troppo spesso i contesti di rinvenimento di queste statue sono poco conosciuti, e questo ostacola ovviamente la possibilità di arrivare ad una comprensione degli aspetti religiosi e sociali. Stiglitz chiude la sua panoramica con alcune riflessioni sul problema della identificazione del dio Bes, concludendo non con una ipotesi unitaria ma piuttosto verso una pluralità di riferimenti, dipendenti anche dal contesto e dall’ambito cronologico. Torna infine al contesto di partenza, proponendo interessanti considerazioni incentrate sull’aspetto rurale dell’insediamento che ha restituito i nuovi esemplari, e sulla caratteristica di meixis delle campagne sarde tra IV e III secolo a.C.

 

          Simonetta Angiolillo richiama l’attenzione su una classe di monumenti funerari di epoca romana ampiamente diffusi in Sardegna. Si tratta di stele funerarie caratterizzate da una iconografia che sostanzialmente si discosta dal linguaggio formale dell’arte romana ma allo stesso tempo segue e rispetta alcune convenzioni culturali che sono pienamente romane, come la presenza –pur non costante- di iscrizioni in latino e l’esigenza di ricordare l’immagine del defunto, anche se in maniera schematica e non realistica. Attraverso una analisi puntuale e arricchita da confronti con altre aree del Mediterraneo, l’A. arriva a far luce sul ruolo di questi semata nell’ambito del processo di romanizzazione dell’isola, proponendo come chiave di lettura la categoria di “identità ibrida” proposta per l’area iberica dalla studiosa Alicia Jiménez.

 

          Rubens D’Oriano e Giovanna Pietra presentano il panorama dei culti della città di Olbia, un caso molto interessante di stratificazione dal momento che la città conosce diverse fasi: fenicia, greca, punica, romana. È interessante l’impostazione che gli A. scelgono per la loro presentazione, e che corrisponde all’idea di stratificazione. Contrariamente al solito, infatti, la presentazione del complesso intreccio religioso di Olbia procede a ritroso, partendo dalle fasi romane che sono le più documentate, e andando indietro verso le fasi meno conosciute. Tra i numerosi motivi di interesse, spicca la continuità di culto rappresentata da due divinità: Melqart/Herakles/Hercules sull’acropoli e Ashtart/Afrodite/Venere sul porto. Due divinità che caratterizzano in maniera strutturale la vita di Olbia, mantenendo questo ruolo attraverso i secoli e le varie culture, arrivando –come notano suggestivamente gli A.- fino ad oggi. E questo riferimento all’oggi, presente in diversi contributi di ambito sardo contenuti nel volume, mostra chiaramente che dietro un’archeologia sarda vi è innanzitutto un grande amore per questa isola.

 

          È forse anche questo amore che spinge Giuseppina Manca di Mores a riesaminare i risultati di alcuni scavi effettuati nella seconda metà degli anni ’60 nel territorio di Fluminimaggiore, dove sorge l’interessantissimo tempio di Antas. Viene così accuratamente riedita la decorazione fittile del tempio, di età tardorepubblicana, che rappresenta un unicum nel panorama dell’isola, trovando piuttosto confronto in Italia centrale (Norba, Fregellae). La decorazione presenta diversi elementi di interesse. Spiccano infatti le figure di Eracle e di Iolao, suo compagno, qui rappresentato già come assimilato alla figura di Sardus Pater, menzionato peraltro nella iscrizione dedicatoria del tempio nella sua successiva fase imperiale.

 

          Maria Adele Ibba presenta alcune riflessioni sul santuario di via Malta a Cagliari. Si rievocano innanzitutto le precedenti ipotesi interpretative di questa struttura, indagata tra il 1938 ed il 1941, e che in tempi recenti è stata oggetto di un riesame e riordino dei materiali, di cui l’articolo rende conto in maniera ancora preliminare.   

 

          L’ultimo contributo è di Enrico Trudu, che presenta una breve carrellata di esempi di “romanizzazione” religiosa nelle aree interne della Sardegna, in particolare in un’area campione di 108 comuni della zona centro-orientale dell’isola. Questa area tradizionalmente rientra sotto l’etichetta di “Barbaria”, zona di resistenza indigena e di minore “romanizzazione”, opposta alla “Romània”, zona più “romanizzata” e più civilizzata. Attraverso l’uso di dati letterari ed archeologici, Trudu tratteggia un quadro che si rivela ben più articolato e complesso rispetto alla semplicistica opposizione tradizionale, tanto che in alcuni casi, perlopiù di II secolo d.C., le presenze cultuali sembrano mostrare nelle aree interne una romanitas addirittura più genuina rispetto alle aree costiere, solitamente più aperte a diverse influenze e sincretismi.

 

          Il volume è provvidenzialmente chiuso da una riflessione riassuntiva affidata ad uno dei pochi studiosi in grado di tirare le fila di così tanti discorsi: Mario Torelli. In una rassegna dei diversi contributi del volume, Torelli mette innanzitutto in luce gli aspetti salienti, non mancando di fornire altri elementi di interesse e anche qualche osservazione critica; in più, suggerisce ulteriori direzioni di ricerca, cogliendo l’occasione anche per alcune opportune digressioni e riflessioni accademiche. Tra i vari suggerimenti avanzati da Torelli, vale la pena cogliere quello che riguarda gli studi sulla produzione figurativa nuragica, che devono essere impostati con prospettiva di “sistema”, prendendo in considerazione il dossier nel suo insieme, e non in maniera settoriale.  

 

          Per concludere, si tratta di un volume pieno di interesse e di novità, con contributi eterogenei come accade quasi sempre in collettanee del genere, ma di livello sicuramente alto; si segnalano in particolare i lavori sulla Sardegna antica, terra che ha ancora diverse storie da raccontare, e rese ancor più interessanti in quanto frutto di uno straordinario multiculturalismo. Unico appunto complessivo che si può muovere è la mancanza di una introduzione che potesse guidare il lettore attraverso i vari contributi del volume.

 

Note:

 

(1): Un rinnovato interesse sul tema dei sacrifici umani è dimostrato da alcuni recenti lavori, come A.A. Nagy, F. Prescendi (ed.), Sacrifices humains: dossiers, discours, comparaisons. Actes du colloque tenu à l’Université de Genève (2011), Turnhout:  Brepols, 2013; P. Bonnechére, R. Gagné (ed.), Sacrifices humains. Perspectives croisées et représentations. Human Sacrifice. Cross-cultural perspectives and representations, Liége, 2013.

 

(2): B. d’Agostino, Le immagini e la società in Etruria arcaica, «AIONArch» X, 1988, pp. 217-226.

 

 

 

Sommario


P. Xella, Il tophet. Un’interpretazione generale (1)

M. Giuman, C. Pilo, Il kyathos attico. Un vaso etrusco nel Ceramico di Atene (19)

M. Minoja, Intorno all’altare. Motivi iconografici sulla ceramica campana
a figure nere (37)

F.-H. Massa-Pairault, La tomba dei Pigmei a Tarquinia. L’espressione del
sacro: una esplorazione preliminare (49)

E. Lippolis, Lo scavo dei santuari di Saturo (Taranto) (65)

R. Olmos et al., Imágenes para un linaje: vida, muerte y memoria ritual en
la Cámara principesca de Piquía (Arjona, Jaén) (89)

P. Bernardini, Un’epica senza Omero: stratificazioni, interferenze e
collisioni culturali nella Sardegna dell’età del Ferro (105)

M. R. Manunza, D. Artizzu, Processi di stratificazioni culturali nell’alto
luogo di Bruncu Mogumu-Sinnai (Cagliari) (123)

A. Stiglitz, Bes in Sardegna. Nuove attestazioni da San Vero Milis
(Sardegna centro-occidentale) (133)

S. Angiolillo, Asselina, Foronto, Tertius: sardi, punici o romani? (153)

R. D’Oriano, G. Pietra, Stratificazione dei culti urbani di Olbia fenicia,
greca, punica e romana (173)

G. Manca di Mores, Il Sardus Pater e la decorazione architettonica fittile
del tempio di Antas (189)

M. A. Ibba, Il santuario di Via Malta a Cagliari: alcune riflessioni (205)

E. Trudu, Sacrum Barbariae: attestazioni cultuali nelle aree interne della
Sardegna in epoca romana (217)

M. Torelli, Conclusioni (237)