Ebert-Schifferer, Sybille - Herrmann Fiore, Kristina (a cura di): Dürer, l’Italia e l’Europa, « Studi della Bibliotheca Hertziana », 6, « Roma e il nord. Percorsi e forme dello scambio artistico », 2, 200 p., 212 ill. in b/n, ed. italiana con testi in lingua originale, ISBN 9788836622689, 45,00 €
(Silvana Editore, Cinisello Balsamo 2011)
 
Compte rendu par Ilaria Andreoli, Université de Caen
 
Nombre de mots : 3434 mots
Publié en ligne le 2013-10-01
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Questo volume riccamente illustrato raccoglie i testi delle quattordici relazioni presentate in occasione dell’omonimo convegno internazionale di studi organizzato dalla Bibliotheca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell’arte in collaborazione con The British School at Rome tenutosi il 23-25 aprile 2007 in concomitanza della mostra curata da Kristina Herrmann Fiore, Dürer e l’Italia (Roma, Scuderie del Quirinale, 9 marzo-10 giugno 2007). Programmate nell’ambito della serie di incontri promossi dalla Biblioteca Hertziana,  «Roma e il nord – Percorsi e forme dello scambio artistico», dedicati allo studio dell’interazione culturale e artistica tra l’Italia e i paesi transalpini e di cui questo volume rappresenta il secondo della collana italiana, le tre giornate intendevano allargare il tema della mostra sul piano geografico. Se infatti, grazie all’ampia diffusione delle sue stampe e dei suoi trattati nelle collezioni e nelle botteghe artistiche, la ricezione dell’arte di Dürer si è declinata secondo una grande molteplicità di aspetti e ha raggiunto una statura realmente europea, d’altro canto la sua propria apertura verso gli influssi italiani sia sul piano teorico che su quello pittorico e iconografico ne fanno un protagonista indiscusso della nascita della nuova arte rinascimentale, comune all’intero continente, caratterizzata dall’incontro dei principi e delle tecniche nordici con quelli italiani. Attento conoscitore delle incisioni italiane, in particolare di quelle di Mantegna, tramite cui approfondì la sua visione della statuaria antica, e appassionato studioso delle nozioni di proporzione indagate da Leonardo, Dürer, sempre assetato di nuove conoscenze e stimolato dal suo ingegno sperimentale, riuscì a combinare la sua cultura d’origine con quella della Penisola in un linguaggio autonomo e originale, che si espresse attraverso dipinti, stampe, trattati e studi geometrici. Proprio per celebrare questa poliedrica figura di grande viaggiatore privo di confini mentali il volume ha riunito un coro poliglotta di specialisti italiani, tedeschi, austriaci, spagnoli, inglesi e americani. 

 

          Nel primo contributo Juliana Barone esplora l’impatto della teoria sulle proporzioni di Leonardo e di Dürer su Enea Salmeggia detto « il Talpino » (c. 1550/1565-1626), attivo a Bergamo, sua città natale, e a Milano, i cui studi, orientati verso una stretta regolarizzazione formale e spaziale, offrono nuove ed interessanti testimonianze della complessa ricezione dei due maestri nella prima decade del Seicento. Barone cerca dunque di ricostruire i principi e le teorie del pittore bergamasco attraverso l’analisi di alcuni suoi disegni di prospettiva che possono essere messi in relazione con un suo trattato ora perduto. Sebbene, a differenza di Leonardo e Dürer, il Talpino non studi il corpo umano nella realtà o nel dettaglio delle sue misure ma ne riduca la varietà delle forme ad un canone tipologico, egli, tuttavia, guarda attentamente e attinge ai motivi e alle tecniche dei trattati dei due illustri predecessori per i fondamenti geometrici e la rappresentazione grafica del suo metodo, che intendeva come strumento essenzialmente didattico e pratico rivolto agli artisti.

 

          Marzia Faietti focalizza il suo intervento sull’assimilazione e rielaborazione da parte di Dürer dei fogli mantegneschi e di quelli di alcuni anonimi maestri ferraresi, prima e durante il suo primo soggiorno italiano. Dalle inventiones di Mantegna, Dürer estrapola temi, motivi e dettagli, reinterpretandone invece il modellato e l’ombreggiatura secondo il suo personalissimo linguaggio grafico. Dürer segna allora il passo della svolta artistica dell’inizio del Cinquecento verso un’aemulatio della natura, più che a una sua simulatio, che nelle sue composizioni grafiche si realizza nell’impiego di un tratteggio incrociato, atto a rendere una visione tridimensionale, volumetrica, dell’oggetto, indagata in tutte le sue più sottili modulazioni chiaroscurali, ben diverso dal severo e «statuino» linguaggio grafico del padovano, più atto a descrivere il solo contorno. Sarà d’altronde proprio il naturalismo delle sue incisioni a decretarne il successo presso i bulinisti italiani, primo fra tutti Marcantonio Raimondi.

 

          Simone Ferrari analizza invece i rapporti tra Dürer e Jacopo de’ Barbari nel nome del comune interesse per la prospettiva e per l’antico. L’artista e teorico italiano svolse per il tedesco un ruolo di mediazione e trasmissione di idee, motivi e riflessioni teoriche di altri maestri, primo fra tutti, naturalmente, Leonardo. Entrambi condivisero poi il tipo di percorso intrapreso : dopo una prima fase volta ad approfondire le stesse fonti figurative, in particolare quelle incise, i due raggiunsero contemporaneamente un apice classico nel primo decennio del Cinquecento, per maturare uno straordinario livello tecnico nel bulino nel secondo, mostrando in più occasioni e a distanza ravvicinata un interesse per gli stessi soggetti o generi artistici.

 

          Il lungo articolo di Jürgen Müller analizza con finezza i rapporti di Dürer con i capolavori dell’antichità, di cui fu grande ammiratore ma nei cui confronti ebbe spesso riserve condite da una buona dose di ironia. Partendo dall’analisi dell’impiego del Laocoonte (che tra l’altro confermerebbe la presenza dell’artista a Roma nel 1506) e del Satiro che suona il flauto di Prassitele quali possibili modelli di alcune composizioni düreriane, l’autore fa notare come, a differenza di Mantegna, l’incontro di Dürer con l’«Antigish Art» non risponda tanto a un interesse antiquario, quanto piuttosto alla modernizzazione dei mezzi artistici. In molte sue opere infatti, Dürer sovverte – anzi, propriamente, inverte - il messaggio dell’originale antico con un chiaro intento critico e ironico, e al tempo stesso profondamente politico, da leggere secondo una chiave interpretativa basata sull’antitesi di pagano/cristiano, italiano/tedesco e antico/moderno. Questa subversio ironica della gerarchia estetica dell’antichità e, di conseguenza, del contesto teorico-artistico italiano, diventa nel corso del tempo un vero e proprio esercizio artistico, atto a dimostrare che si possiede l’abilità necessaria per misurarsi e rovesciare un modello celebre, come è riscontrabile in alcune incisioni di Dirck Jacobsz Vellert e di Hans Holbein. Se per Dürer si trattava semplicemente di rivalità tra Nord e Sud, per le successive generazioni di artisti nordici il conflitto fu esasperato dalla Riforma, stimolando l’emancipazione dell’arte tedesca e la sua piena legittimazione di fronte ai modelli antichi e italiani, come avviene nella Filanda di Barthel Beham, dove la Galatea raffaellesca diventa protagonista negativa di un commento teologico al tema del peccato originale. Il ribaltamento ironico del valore iconografico del modello antico non produce dunque solo un divertimento scherzoso, ma, ribaltando il tradizionale equilibrio antico-pagano tra il valore estetico della forma e quello etico del contenuto, pone le basi anticlassiche della nascente pittura di genere.

 

          Il ritratto del banchiere norimberghese Hans Kleberge (1526) è stato definito il «messaggio di benvenuto» di Dürer al Manierismo. Karl Schütz ne analizza la curiosa composizione – un busto inserito in un oculo rotondo che ricorda una medaglia – e le sue fonti iconografiche (l’autoritratto di Mantegna in Sant’Andrea a Mantova e le 17 xilografie di Hans Burgkmair che riproducevano le teste degli imperatori romani tratti dalla collezione numismatica di Konrad Peutinger) e lo contestualizza nell’ambito della produzione dei ritratti umanisti e di quelli degli apostoli in particolare, dell’ultimo Dürer.

 

          Giovanni Maria Fara e Pietro Roccasecca studiano entrambi la ricezione e il ruolo della trattatistica e dell’arte di Dürer nell’insegnamento accademico italiano.

 

          A Firenze, il mutamento di prospettiva nei confronti dell’arte e della teoria düreriana avvenne in concomitanza di alcuni eventi decisivi che videro protagonisti Michelangelo, Cosimo Bartoli e la nascita dell’Accademia fiorentina. Intorno alla metà del secolo il magistero di Michelangelo, ormai stabilmente presente a Roma, diventò un imprescindibile punto di riferimento per gli artisti fiorentini, causando una chiusura definitiva nei confronti di Dürer, che pure aveva suscitato tanto interesse nella generazione precedente. La definizione dell’unica norma e lingua artistica possibili, quelle michelangiolesche, sacrificò certo una più profonda comprensione della maniera tedesca, ma al tempo stesso consentì, anzi, spesso suggerì, una lettura dell’opera grafica düreriana nel nuovo ambito accademico. Nell’età della Controriforma, essa trovò la sua più diffusa espressione nel disegno, e i giovani artisti, tra cui il Cigoli, Pocetti e Federico Zuccari, venivano incoraggiati a copiare le stampe religiose düreriane in un esauribile processo di formazione, rendendo la molteplice attività di incisore, teorico e scrittore dell’artista tedesco patrimonio comune nelle nascenti Accademie del Disegno. A Roma, nonostante le iniziali resistenze opposte dalla concezione idealista dell’arte promossa da Federico Zuccari, anche la teoria di Dürer, specialmente quella relativa ai problemi della rappresentazione della figura umana, destinata ai livelli di apprendimento più avanzati dei giovani artisti divenne parte integrante del progetto didattico dell’Accademia del disegno di San Luca. Dallo studio romano transitarono come allievi e professori molti dei principali protagonisti del Seicento romano, che collaborarono così a diffondere in Italia durante tutto il XVII secolo l’eredità tecnica, formale e tematica del maestro di Norimberga.

 

          Mathias Winner dimostra come il ritratto düreriano di Erasmo sia servito, attraverso un sottile gioco di citazioni incrociate che comprendono anche i ritratti di Erasmo realizzati da Holbein, come modello per il ritratto del poeta e letterato Giovanni Bressani di mano di Giovan Battista Moroni (1526, Edimburgo, National Galleries of Scotland) e per l’autoritratto di Baccio Bandinelli, noto attraverso un’incisione di Nicolò della Casa. L’idea comune è quella della complementarietà fra il ritratto, registrazione dell’aspetto fisico del soggetto, e le opere, siano esse letterarie o artistiche, specchi della sua anima e « voci » che permettono di far parlare la sua immagine. Ad essa si affianca il concetto ciceroniano del «manum de tabula», ovvero della capacità, dello scrittore come dell’artista, di riconoscere quando è giunto il momento di «sollevare» la mano dall’opera, perché «perfetta».

 

          Herwarth Röttgen ricostruisce invece il percorso da Sud a Nord delle Alpi, e in particolare nella Norimberga di Dürer, della ricezione dell’antichità, e quello, in senso opposto, della diffusione del realismo düreriano in Italia, attraverso l’itinerario un preciso tipo iconografico, quello dell’uomo maturo, grasso e dal viso appesantito da un vistoso doppio mento. Elaborata come immagine cesarea o imperiale, Dürer la trasse dal Sileno del Baccanale mantegnesco, per trasformarlo nel Caifa delle due serie d’incisioni sul tema della Passione, quella xilografica e quella calcografica, e in seguito nel pingue cuoco in compagnia della moglie di un altro bulino. A loro volta, Luca Giordano e Giuseppe Cesari reimpiegarono la medesima figura in alcune composizioni tra la metà e la fine del XVII secolo.

 

          L’eredità düreriana esercitò un fascino profondo sulle due opposte correnti pittoriche che caratterizzano l’arte romana al volgere del ‘600 : la scuola bolognese dei Carracci e quella di Caravaggio. Dürer ebbe un immenso successo non solo per la forza della sua ritrattistica, per l’attenzione all’espressione umana, per la fortunata interpretazione di tematiche religiose e per l’empirica osservazione della natura, ma anche per le soluzioni compositive di grande impatto sullo spettatore, per il suo insegnamento scientifico-razionale nella resa delle misure e delle proporzioni e per l’altissima qualità della sua tecnica grafica, diffusa da disegni originali ma soprattutto dalle stampe. Kristina Herrmann Fiore ricostruisce dapprima le filiazioni iconografiche negli artisti della scuola bolognese, da Ludovico e Annibale Carracci ai loro seguaci, Badalocchio, lo Scarsellino, Saraceni, Domenichino, Albani, fino agli allievi degli allievi, Sacchi, Cozza, l’Orbetto, Gentileschi, il Cigoli, Cantarini, Guercino, Cavarozzi e Mattia Preti. L’autrice indaga in seguito la presenza di fonti düreriane in Caravaggio, che del maestro tedesco doveva conoscere non solo il corpus inciso, tramite soprattutto gli esemplari presenti nelle collezioni romane dei suoi amici e protettori, come il cardinal Del Monte e il Marino, ma anche i i trattati, consultati durante la sua formazione presso il Peterzano, e alcuni i dipinti, che, attribuitigli a ragione o a torto, erano presenti alla fine del Cinquecento nelle collezioni romane, primo fra tutti il Cristo tra i dottori, l’ «opus quinque dierum», i cui riflessi si ritrovano in opere del Merisi e di molti suoi seguaci, come Manfredi, Serodine, della Vecchia, Cavarozzi, Grammatica, e Salvator Rosa, per altro particolarmente attratto dalla fantasia düreriana nell’inventare animali spaventosi.

 

          Il San Gerolamo che Dürer realizzò ad Anversa nel 1521, combinando due tradizioni iconografiche diverse, quella del santo penitente e quella dello studioso, ebbe grande influenza sulla successiva tradizione pittorica del soggetto. Marieke von Bernstorff ripercorre il filo rosso delle filiazioni dell’opera in alcuni dipinti realizzati ad Anversa nel XVI secolo e in Italia e in Spagna durante il secolo successivo, e, analizzandone il contesto geografico e culturale, getta luce sulle diverse strategie pittoriche dei loro autori e sul loro significato. Ad Anversa furono Joos van Cleve, Quentin and Jan Massys e soprattutto Marinus van Reymerswaele e la sua bottega a riformulare il modello düreriano in numerose versioni, sfruttando il successo dell’ «Apelle germanico». A Roma, fu Bartolomeo Cavarozzi, un pittore legato al circolo socio-culturale della famiglia Crescenzi, vicina a Filippo Neri e Federico Borromeo, a citare la composizione düreriana in due diverse tele in cui è particolarmente messa in rilievo la componente teologica. L’interpretazione del modello che ne diede lo spagnolo Antonio Pereda ne sottolinea invece la straordinaria efficacia come immagine devozionale, riflettendo il topos postridentino di Dürer come «pintor católico e santo». 

 

          Benito Vavarrete Preto ricorda come le stampe di Dürer fossero una delle fonti più ricercate dai pittori spagnoli del Cinquecento, che le acquistavano e conservavano gelosamente, e come il loro influsso si sia esteso largamente a tutto il secolo successivo. Filiazioni dirette, sebbene con modalità di ricezione diverse caso per caso, si possono agilmente riconoscere nelle opere di Vicente Carducho, Domingo de Carrión, Juan Bautista Maino, Antonio de Pereda, Antonio Arias, mentre Francisco Pacheco, nella sua Arte della Pittura, le consacrava vere e proprie autorità iconografiche per alcuni soggetti devozionali, prontamente seguito dai due suoi più celebri allievi, Diego Velásquez e Alonso Cano. Tra tutti i pittori del regno di Filippo IV, quello che però studiò con più acutezza l’opera di Dürer fu sicuramente Francisco Zurbáran, nel quale la dipendenza supera l’aspetto formale per incidere anche sullo stile, in particolare nelle linee spezzate dei panneggi. A Siviglia, infine, le stampe di Dürer si annoverano tra le fonti di artisti anche più espressamente barocchi, come Valdés Leal, nonostante che la sua spiritualità fosse del tutto opposta al classicismo del maestro tedesco.

 

          In Inghilterra, la prima traduzione del trattato di Dürer sulle proporzioni apparve solo nel 1666, ma, come illustra Giulia Bartrum, una precedente pubblicazione ne permise un’influenza indiretta: nel 1598 Richard Haydocke tradusse il Trattato dell’arte della pittura di Lomazzo facendolo illustrare, senza citarne la fonte, con delle incisioni tratte dal testo düreriano. La prima importante testimonianza diretta da parte di un artista inglese apparve poco dopo: nel trattato sull’arte della miniatura scritto fra il 1598 e il 1603, Nicolas Hilliard esprimeva un particolare apprezzamento per la precisione e la delicatezza della tecnica incisoria del maestro tedesco. Nel Regno Unito, l’ambiguità che pervase la fama postuma di Dürer fino a tutto l’Ottocento deve essere ricondotta proprio al fatto di essere conosciuto principalmente come incisore. Anche i suoi dipinti e disegni, infatti, erano noti principalmente tramite stampe, come quelle realizzate a metà Seicento da   Wenceslaus Hollar sulla base della ventina delle sue opere presenti nella collezione di Thomas Howard, Earl of Arundel (1585-1646). Nel 1724, Hans Sloane, fondatore del British Museum, acquistò in Olanda l’ultimo nucleo di disegni e manoscritti düreriani ancora disponibili sul mercato europeo, ma nel suo Analysis of Beauty (1753) William Hogarth, satirizzava le teorie artistiche di Dürer, condividendone il giudizio negativo con Joshua Reynolds che ne criticava l’opera nei suoi Discourses (1774) per la sua fondamentale mancanza di grazia. Dürer trovò invece un convinto difensore in William Blake, influenzandone profondamente alcuni dei suoi proseliti, come l’artista visionario Samuel Palmer. Maggiormente coinvolti nell’ideologia romantica che pervase l’arte britannica della fine del Settecento, John Hamilton Mortimer e Benjamin West furono particolarmente attratti dall’interpretazione düreriana dell’Apocalisse, mentre Henry Fuseli, pur criticandone le teorie artistiche, ne studiò attentamente il corpus inciso. Nell’Ottocento, grazie anche al movimento tedesco dei Nazareni e alle celebrazioni organizzate a Norimberga nel 1828, Dürer ritornò ad essere un artista rispettato ed apprezzato, e le sue incisioni, come quelle degli altri artisti tedeschi a lui contemporanei, furono un’importante fonte d’ispirazione per la corrente preraffaellita. Un ulteriore interesse nei confronti dell’opera düreriana fu poi stimolato dal revival dello stile gotico di cui fu largamente responsabile l’architetto Augustus W. N. Pugin, e lo stesso John Ruskin acquistò una grande quantità di incisioni di Dürer che dava da studiare ai suoi studenti. Il tenore della popolarità dell’artista nell’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento è infine testimoniato dall’artista e poeta William Bell Scott, che raccolse durante tutta la sua vita una notevole collezione di stampe sue e di altri maestri tedeschi e visitò Norimberga, realizzando numerosi disegni che impiegò poi per illustrare il suo libro sull’artista (1869), la prima seria monografia in lingua inglese, pubblicata quasi in contemporanea alla biografia di Mary Margaret Heaton (1870).

 

          Nell’ultimo contributo, Jeffrey Chipps Smith instaura un interessante gioco di specchi tra Dürer e Panofsky nell’analisi e nella contestualizzazione storico-critica di quella «summa of Dürerology», come ebbe a definirla Jan Białostocky, che è The Life and Art of Albrecht Dürer, la cui prima edizione fu pubblicata da Princeton University Press nel 1943. Interessandosi più all’iconografia e all’iconologia, Erwin Panofsky vi presentava una visione alquanto differente del Dürer descritto dall’allora prevalente bibliografia, quella di Wölfflin o di Waetzoldt in particolare, che si concentrava maggiormente sulla biografia, lo stile e la connoisseurship. Coscientemente o meno, Panofsky costruisce l’avvincente ritratto di un maestro estremamente talentuoso e singolare, un intellettuale e un umanista con una visione realmente moderna ed internazionale, privo di qualunque riflesso della becera retorica nazionalista che tentava in ogni modo di farne il suo campione ; un ritratto, insomma, che assomiglia moltissimo ad un autoritratto. Se per lo sguardo americano di quell’epoca egli rappresentava la quintessenza dell’erudito accademico, frutto dell’alta qualità del sistema educativo tedesco, da parte sua, Panofsky voleva presentare Dürer al pubblico americano come l’ideale dell’artista tedesco del Rinascimento, impregnato dalla visione utopica dell’umanesimo italiano, basata sulla consapevolezza storica e sul potere trasformatore dell’individuo e degli studi umanistici, quelli stessi che per lui avevano rappresentato una via di fuga dal regime nazista. Al di là di quanto del suo contenuto sia stato messo in discussione, modificato e/o smentito, la monografia panofskiana ha indubbiamente segnato non solo tutte le seguenti generazioni di studiosi di Dürer ma anche il modo di scrivere la biografia di un artista del passato.

 

          Nonostante qualche disparità qualitativa tra i testi, il volume apporta nel suo complesso dei contributi originali e interessanti allo studio della ricezione düreriana dell’arte antica e di quella italiana e, soprattutto, della fortuna dell’opera di Dürer in Europa, ampliando geograficamente e temporalmente le voci di László Mészáros (Italien sieht Dürer: Zur Wirkung der deutschen Druckgraphik auf die italienische Kunst des 16. Jahrhunderts, 1983), degli autori del catalogo della mostra veneziana Il Rinascimento a Venezia e la pittura del Nord ai tempi di Bellini, Dürer, Tiziano (1999, curato da Bernard Aikema e Beverly Louise Brown) di quelli del volume pubblicato in occasione della mostra londinese Albrecht Dürer and his Legacy (2002, a cura di Giulia Bartrum), di Giovanni Maria Fara (Albrecht Dürer. Originali, copie e derivazioni, 2007, primo volume dell’inventario generale delle stampe del Gabinetto degli Uffizi, in cui l’autore ha ricostruito la fortuna italiana di ognuna delle stampe düreriane della collezione fiorentina) e degli autori del catalogo della mostra di Roma in occasione della quale si è tenuto il convegno (2007, ugualmente curato da Kristina Hermann Fiore).

 

          Dispiace giusto constatare l’assenza di una ricognizione dell’influenza delle opere di Dürer in due zone geografiche importanti come i Paesi Bassi e l’Est europeo e, dal punto di vista metodologico, di un maggiore interesse nei confronti delle arti minori e decorative dove l’influenza delle stampe düreriane fu estremamente importante e duratura.

 

 

 

INDICE

 

- Kristina Herrmann Fiore, p. 7 

- Juliana Barone, « Those Lines and Circles » : Geometry and Proportion in Leonardo, Dürer and Talpino, p. 9-24

- Marzia Faietti, Aut Facilitas aut Lex ? Dürer agli esordi e la grafica degli italiani, p. 25-38

- Simone Ferrari, Dürer e Jacopo de’Barbari : persistenza di un rapporto, p. 39-46

- Jürgen Müller, « Antigisch Art ». Un contributo alla ricezione ironica dell’antichità da parte di Albrecht Dürer, p. 47-71

- Karl Schütz, Dürer und der Manierismus : das Bildnis des Johannes Kleberger, p. 72-76

- Giovanni Maria Fara, Albrecht Dürer, Cosimo Bartoli e la nascita delle Accademie Fiorentine, p. 77-87

- Pietro Roccasecca, Il ruolo della teoria düreriana nella formazione degli artisti nell’Accademia del Disegno di Roma, p. 88-97

- Mathias Winner, Manum de tabula. Baccio Bandinelli und Giovanni Battista Moroni interpretieren Dürers Erasmus-Stich, p. 98-112. 

- Herwarth Röttgen, Silen, Koch, Kaiphas : Erfindung und Wege eines « Typs ». Von Mantegna und Dürer zu Luca Giordano und anderen, p. 113-122.

- Kristina Hermann Fiore, Dürer – fonte di ispirazione per i Carracci, il Caravaggio e i maestri del Seicento, p. 123-151

- Marieke von Bernstorff, Embedded Images of Dürer. On the Trasmission of a Visual Quotation, p. 152-168.

- Benito Navarrete Prieto, Dürer e i pittori di Filippo V, p. 169-176

- Giulia Bartrum, The Reception of Dürer in Great Britain : from Nicholas Hilliard to William Bell Scott, p. 177-185

- Jeffrey Chipps Smith, Panofsky’s Dürer, p. 186-193

- Gli autori del volume, p. 195-197.