Cordez, Philippe - Krüger, Matthias (dir.): Werkzeuge und Instrumente, X, 229 p., 106 fig., N/B, ISBN 978-3-05-005098-0, 49.80 €
(Akademie Verlag, Berlin 2012)
 
Compte rendu par Maurizio Buora, Società friulana di archeologia
 
Nombre de mots : 2425 mots
Publié en ligne le 2014-04-16
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Il volume raccoglie  gli atti di due diversi incontri tenutisi  nel giugno 2008 alla Warburg-Haus di Hamburg e nel giugno 2009 al Kunsthistorisches Institut di Firenze. Esso, che si compone di dodici contributi, più l’introduzione e una serie di appendici (notizie sugli autori, elenco degli strumenti, indice dei nomi), è sostanzialmente un dialogo franco-alemanno, con prevalenza di interventi dalla Germania. Un ambito di ricerca privilegiato è quello musicale, cui si affianca il dominio dell’arte figurativa. I campi di indagine spaziano  dal XIII secolo ai giorni nostri.

 

          Nell’introduzione i due curatori, rifacendosi a testi ottocenteschi, riprendono l’antico significato degli “outils” come mezzo per passare dall’idea alla sua realizzazione materiale, mentre gli ”Instrumente” propriamente detti avrebbero finalità meramente spirituali (p. VIII). Ciò comporta interessanti conseguenze sul piano semantico.

 

          Abbiamo qui dunque  un insieme di studi sostanzialmente di storia dell’arte (o delle arti nel senso più ampio) per mezzo degli “oggetti” – ma la parola sembra equivoca, in quanto esprime un “altro da sé”, mentre i termini usati indicano quasi un prolungamento della corporeità dell’operatore - utilizzati dall’artista per le sue creazioni, come sottolinea Philipp Cordez, Werkzeuge und Instrumente in Kunstgeschichte und Technikanthropologie, pp. 1-19.  Benché l’attenzione agli attrezzi e agli strumenti, anche nella loro materialità, sia presente nella cultura occidentale, sotto forma di collezionismo o studio in vario modo  dal tardo Rinascimento ai giorni nostri,  a metà dell’Ottocento la scoperta archeologica di attrezzi “antidiluvianI” diede avvio a tutta una serie di nuove riflessioni sulla tecnica e la cultura materiale, riflessioni cui la storia dell’arte, legata tradizionalmente all’estetica, rimase sostanzialmente estranea, per quanto il significato stesso della parola ars  contenga un pregante valore tecnico.

 

          L’originale accostamento alla materia di alcuni saggi è esemplificato nel  testo di Franϛois  Poplin ( L’outil, la matière et la main dans la profondeur de l’esprit, pp. 21-32)  ricco di  suggestioni che da semantiche si fanno culturali, talora psicoanalitiche (cfr. il passaggio da materia = legno da lavorare a mater) attraverso tutta una serie di  percorsi linguistici, franco-tedeschi, che nel tragitto dalle parole alle cose portano all’esplorazione – talora all’esasperazione – di alcune metafore.

 

          Anche il contributo di Martine Clouzot ( Matières en mouvement. Instruments de musique, objets et sonorité dans les livres peints (milieu 13° - milieu 14° siècles, pp. 33---) si muove in maniera simbolica in un campo apparentemente tradizionale, quali le raffigurazioni di carattere musicale del XIII e XIV secolo qui piegate a svelare l’armonia e la cacofonia, la musica e il silenzio.

 

          Julia Saviello (Instrumente der Ordnung – Objekte der Verführung. Elfenbeinkämme als Bildträger im 14. Und 15. Jahrhundert, pp.   49-63)  si sofferma sul  valore simbolico  del pettine, assimilato allo strumento per cardare la lana, e delle azioni associate ad esso. Prima della santa Messa il sacerdote deve pettinarsi, con un gesto che allude alla purificazione interna (p. 51). In campo profano esso allude all’ordine e alla pulizia. Il suo significato è  accentuato, negli esemplari di maggior valore, dall’iconografia delle immagini che adornano la parte centrale, tra le due file di denti, più e meno radi. In un pettine di Lucerna si vedono scene campestri allusive alla fecondità (persone che fanno cadere frutti da un albero) e scene di corteggiamento, tipiche della poesia cortese del tempo (ma le stesse scene si trovano anche su altri oggetti per la toeletta femminile, come le custodie in osso di specchi, fin dal XIII secolo). Alla pari di altri supporti – oggetti intagliati, testi letterari, miniature etc. – anche i preziosi pettini veicolano la tematica amorosa, con la fontana d’amore capace di ridare la bellezza, anche se essa è mascherata da soggetti apparentemente  sacri come Davide che si innamora di Betsabea, vedendola dalla finestra fare il bagno nella fontana. Non mancano in questo contributo come in altri riferimenti al mondo antico, tra cui spicca l’analisi  delle raffigurazioni del il giudizio di Paride. Dunque il pettine può rientrare a buon diritto nel novero degli “istrumenti di Venere”così definiti da Giovanni Paolo Lomazzo nel 1584.

 

          Affascinante è il contributo  di Ulrich Pfisterer, Das Werkzeug in der Sammlung – oder: der König vor Cornelis Gijbrecht’s Staffelei p.  67-92 che da un quadro che raffigura un cavalletto (1670) trae numerosi e profondi significati  riferiti di volta in volta alla disputa sul valore dei generi pittorici, sui rapporti tra pittore (di corte) e sovrano, sul richiamo all’antico – con riferimento ad Alessandro Magno che visita la bottega di Apelle - sul valore del non finito, sul simbolismo della veduta posteriore di un quadro.

 

          Il pennello per pittura ad acquarello è diverso da quello per pittura ad olio, per natura e funzione. Partendo da questa semplice constatazione Gotlind Birkle ci  accompagna Zwischen  ästhetischer  Norm und neuartigen Darstellungs verfahren. Der Pinsel in der Aquarellmalerei um 1800  (pp. 93-108).  A partire da una sorta di archeologia del pennelli – ancora la materialità degli attrezzi – si esaminano le difficoltà dell’acquerello alla fine del Settecento (es. necessità di far asciugare i colori, possibilità di macchie etc.) per cui il genere rientrava piuttosto nel “disegno” cioè in una posizione subordinata alla pittura per eccellenza, ovvero quella a olio.  Quando negli anni Settanta del XVIII secolo si inventarono le incisioni colorate esse parvero poter essere annoverate nella grande pittura, benché non ne assolvessero tutte le condizioni.  Successivamente un miglioramento della tecnica le fece accettare incondizionatamente, rilevandosi in esse una mescolanza di disegno (ragione) e colore (sentimento) e pervenendo così a una nuova concezione estetica delle loro particolarità e potenzialità.                                                                                              

          Gustave Courbet fu a torto indicato in Francia come inventore della “peinture au couteau”: su questo genere purtroppo mancano studi, i quali avrebbero potuto provare che in essa Courbet fu ben più radicale di quanto pensassero i suoi detrattori e questo per l’uso di una paletta particolare, come osserva Matthias  Krüger (Gespachtelter Zufall. Gustave Courbet und die Messermalerei,  pp. 109-127). Per alcuni critici contemporanei questa prassi sarebbe stata prova – e conseguenza – del suo materialismo; da ciò anche il tentativo di paragonare le sue rappresentazioni del mare all’aspetto di diversi minerali. In generale si riconosce che  il pennello va connesso a un accurato controllo dell’azione, opera del cervello, la paletta risulta invece associata propriamente alla mano, quindi soffre di una certa casualità o improvvisazione. La stessa casualità si riscontra in un’altra  tecnica particolare che viene attribuita a Decamps: essa consisteva nell’accumulare uno strato di vari colori dai quali poi trarre per raschiamento figure evanescenti. In ciò si distinse lo scrittore August Strindberg che in tal modo riteneva di creare “l’art naturel, où l’artiste travaille comme la nature capricieuse et sans but determiné” (p. 121). Dunque le famose onde di Courbet si inquadrano in una tradizione che qualche studioso  (come Sir Joshua Reynolds) non esita a far risalire allo stesso Rembrandt, benché non nasconda una sua intrinseca qualità anarcoide e di opposizione programmatica al disegno. Il grande disegnatore sarebbe, in ultima analisi, lo stesso Dio creatore che come i suoi emuli artisti aveva in mente ab origine tutto il creato, mentre la pittura con il coltello, affidandosi al caso, sarebbe espressione di quella forza creatrice priva di progettazione che in quegli anni Charles Darwin metteva in evidenza nel mondo naturale.

 

          Schmerzlose Körperteile ovvero parti del corpo che non sentono dolore è la definizione che Aby Warburg dà degli utensili (“Geräte”) che acquistano una posizione centrale nella sua riflessione antropologica, specialmente dopo il suo ritorno dal viaggio in America (1896) per osservare usi e tradizioni della tribù dei Pueblo, da cui riportò vive impressioni e una ricca collezione di oggetti – ma anche di elementi apparentemente incongrui, come il preparato per una focaccia. Ne scrive con grande profondità Gottfried Korff (Schmerzlose Körperteile. Zu Aby Warburgs  Anthropologie des “Geräts” , pp. 129 – 149) che si avvale anche della consultazione diretta degli appunti del maestro.

 

          Albrecht Pohlmann presenta un aspetto apparentemente minore del grandi chimico lettone Wilhelm Ostwald, premio Nobel 1909, partire dalla sua invenzione di una specie di spazzola meccanica (“ Streichmaschine”), che rappresenterebbe l’estrema innovazione nel campo della pittura, ossia il  totale automatismo che esclude l’intervento umano. Nel saggio Pastell, Pipette, Streichmaschine- Malwerkzeuge eines Naturwissnschaftlers. Wilhelm Ostwald zwischen Malerei und Reproduktion, alle  pp. 151- 168,  egli tocca anche altre interessanti argomentazioni dell’estroso chimico, che visse e lavorò in Germania, come la sua teoria della maggior durata del pastello rispetto alla pittura ad olio, che lo indusse a far usare questa tecnica  per decorare alcuni spazi dell’università di Jena.

 

          Un concerto del 16 giugno 1962 tenuto a Düsseldorf dall’artista coreano Nam June Paik è pretesto per Katja Müller-Helle per offrire una riflessione sulle minacce rivolte agli strumenti musicali – “strumenti” per eccellenza – che rischiano di divenire oggetti e come tali sottoposti alla rottura da parte dello stesso artista/artigiano (Gefährdete Objekte. Zur Zestörung von Musikinstrumente in der Kunst der 1960er Jahre, pp. 169- 183). Il gesto, a ridosso degli anni della contestazione, si carica anche di significati politici in quanto pianoforte e strumenti a orda appaiono allora come simboli della tradizione musicale alta, tipica della borghesia, che un forte movimento di massa   vuole distruggere.  Una ribellione paragonabile contro lo strumento che rimane invariato fin dal periodo barocco, dai tempi di Antonio Stradivari e di Giuseppe Guarneri si trova nell’opera dell’artista francese Armand Arman intitolata Mamma mia!  e realizzata nel 1961, la quale presenta proprio un violino fatto a pezzi. Essa appartiene a un genere tipico dell’artista, il quale si scaglia prevalentemente contro violini e altri strumenti a corda, da lui smembrati, bruciati e nelle nuove forme riassemblati.    L’uso del violino come strumento, utili a rappresentare un corpo femminile era già in una celebre fotografia di Man Ray (Le violon d’Ingres, 1924), ma Arman tende all’annullamento della forma come liberazione del materiale (p. 176). L’arte figurativa si lega pertanto al materiale per così dire nel suo stato grezzo mentre la musica ne rappresentava la sublimazione.  Persino il gesto della distruzione, come quello dell’artista Nam June Paik, diviene materiale sonoro e come tale proposto nelle “performances” musicali, come quella tenutasi al Fluxus-Festival del 1962 di Wiesbaden da parte di Philip Corner che distrugge un flauto. Questa attività sviluppa da un alto una tendenza già affermatasi all’inizio del Novecento da parte delle avanguardie e dall’altro sviluppa   una linea già proposta negli anni Quaranta da John Cage che aveva introdotto vasi da fiori, radio e altri oggetti domestici nell’universo sonoro.   La manipolazione degli strumenti musicali andava di pari passo con la scoperta e l’utilizzo di nuove sonorità, garantita dall’elettrificazione di alcuni strumenti e fatta propria dalla musica rock (allora propriamente “Rock ‘n’ Roll”), che proprio alle fine degli anni Cinquanta si innestò con il filone tradizionalmente classico.  A questa linea di tendenza non è estraneo neppure il cinema.   

     

          Già Aristotele aveva definito la mano “strumento degli strumenti”, oggetto nella cultura occidentale dal Rinascimento in poi di una progressiva “spiritualizzazione”, tanto che  Monika Wagner  si chiede (Geliehene Hände. Antony Gormleys Field, pp. 185-198)   se abbia ancora senso nell’epoca del “clic” di un “mouse” e della progressiva scomparsa della differenziazione del lavoro manuale nelle industrie occidentali dedicare attenzione alla mano. Nel 1997 l’artista inglese Antony Gormley   fece inondare una cantina della Kunsthalle di Kiel con la vicina acqua del Baltico e a forza di colpi, crepe e altro ne rese la superficie non omogenea: si venne così a creare qualcosa di nuovo che richiamava l’informale degli anni Cinquanta. Successivamente lo stesso Gormley realizzò 40.000 figurine di fango con le quali riempì la sala delle esposizioni del piano superiore. Ciò seguiva una pratica da lui effettuata in altri spazi museali di diversi continenti. Si tratta di figurine assai schematiche che, per quanto costruite artigianalmente lasciano quasi pensare a una produzione industriale di massa.  Il gesto dell’artista si richiama così a eventi mitici, quale la creazione dell’uomo dal fango: proprio questa scena è scarsamente rappresentata nell’arte figurativa, poiché il gesto creativo viene inteso non come opera delle mani, ma della parola (o del verbo).  Ora in occasione del trasferimento della mostra Field al Museum of Fine Arts di Montreal l’artista fece pubblicare un libretto in cui chiariva le modalità di realizzazione del progetto. Apprendiamo così che le figurine furono realizzate in Messico presso una fabbrica di mattoni a San Matias (Cholula) da parte di circa 100 lavoratori – uomini, donne, bambini tra sei e sedici anni- cui il maestro dette adeguate istruzioni. Costoro dunque sono state le mani dell’artista e il loro prodotto varia leggermente nei dettagli l’idea originale. Fenomeni analoghi avvenivano anche in passato quando collaboratori eseguivano parti di opere, che tuttavia il maestro riconosceva come sue avendo egli avuto l’idea, precisato il progetto e curatone la realizzazione. Il ritorno alla manualità quasi come una discesa nel primitivismo  caratterizza altre opere dei primi anni Novanta del secolo scorso, come una dell’artista messicano Gabriel Orozco, “My hand is my heart” del 1991.                                                                                                        

          L’ultimo testo (F. Lamy, L’Outil , pp. 199-209) è una traccia di recita in cui intervengono alcuni utensili a  dialogare tra loro.

 

          In conclusione è molto apprezzabile il tentativo di innovare la storia dell’arte cercando nuovi significati nel rapporto tra l’artista e la sua creazione – privilegiando gli intermediari, siano attrezzi o strumenti -, in cui gli autori si distinguono per la loro  capacità  di attraversare e mescolare diversi campi di indagine (linguistica, arte colta, pittura, musica, cinema, arte popolare) e di ricavarne suggestivi sincronismi, parallelismi e in buona sostanza metafore. La netta predilezione per il moderno, poi, non si dissocia da una serie di continui e spesso originali riferimenti all’antico.

 

 

Inhaltsverzeichnis

 

Philipp e Cordez, Matthias Krüger VII

Einleitung

 

Philippe Cordez 1

Werkzeuge und Instrumente in Kunstgeschichte

und Technikanthropologie

 

François Poplin 21

L’outil, la matière et la main dans la profondeur de l’esprit

 

Martine Clouzot 33

Matières en mouvement. Instruments de musique, objets et

sonorités dans les livres peints (milieu 13e – milieu 14e siècles)

 

Julia Saviello 49

Instrumente der Ordnung – Objekte der Verführung.

E lfenbeinkämme als Bildträger im 14. und 15. Jahrhundert

 

Ulrich Pfisterer 67

Das Werkzeug in der Sammlung – oder: Der König vor

C ornelis Gijsbrechts’ Staffelei

 

Gotlind Birkle 93

Z wischen ästhetischer Norm und neuartigen Darstellungsverfahren.

D er Pinsel in der Aquarellmalerei um 1800

 

Matthias Krüger 109

Gespachtelter Zufall. Gustave Courbet und die Messermalere

 

Gottfried Korff       129

Schmerzlose Körperteile. Zu Aby Warburgs Anthropologie

des »Geräts«

 

Albrecht Pohlmann 151

Pastell, Pipette, Streichmaschine – Malwerkzeuge eines

N aturwissenschaftlers. Wilhelm Ostwald zwischen Malerei

und Reproduktion

 

Katja Müller-Helle 169

Gefährdete Objekte. Zur Zerstörung von Musikinstrumenten in

der Kunst der 1960er Jahre

 

Monika Wagner 185

Geliehene Hände. Antony Gormleys Field

 

François Lamy 199

L’Outil

 

Anhang 211

Die Autoren

Register der Werkzeuge und Instrumente

Personenregister