Bonfait, Olivier - Rousteau-Chambon, Hélène (dir.): Simon Vouet en Italie, préface de Pierre Rosenberg, 291 p., 17,5 x 25 cm, ISBN : 9782753513648, 24 €
(Presses Universitaires de Rennes / Institut National d’Histoire de l’Art 2011)
 
Compte rendu par Paolo San Martino
 
Nombre de mots : 1493 mots
Publié en ligne le 2013-02-07
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          La figura di Simon Vouet è al centro di quest’importante volume di atti del colloque international tenutosi presso il Musée des Beaux-Arts di Nantes e gli Archives Départementales il 6-8 dicembre 2008, nel quadro delle iniziative che hanno visto la realizzazione della mostra sugli anni italiani dell’artista presso il Museo. La direzione di Olivier Bonfait ed Hélène Rousteau-Chambon è stata supportata dal Centre de Recherches en Histoire Internationale et Atlantique de l’Université de Nantes, dal Centre Méditérranéen de Recherches sur les Relations entre les Arts, dall’Université de Provence, et dall’Institut National d’Histoire de l’Art. Rousteau-Chambon è studiosa di Antoine Desgodets; Bonfait è specialista nei rapporti fra Francia e Italia, tra Barocco e classicismo, e il titolo di un suo precedente intervento ("Molti franzesi e fiammenghi che vanno e vengono non li si puol dar regola": mobilité géographique, mode d’habitat et innovation artistique dans la Rome de Nicolas Tournier, in Nicolas Tournier et la peinture caravagesque en Italie, en France et en Espagne, 2001) ci riporta ad una particolare temperie romana, negli anni del soggiorno di Vouet. Anni di tumultuosa moda caravaggesca, in cui franzesi e fiammenghi facevano a gara con gli italiani per interpretare, manipolare e copiare il genio capriccioso di Caravaggio. Il soggiorno del nostro a Roma, dal 1613 al 1627, cade esattamente nel momento di massima competizione e sperimentazione artistica, prima del fatidico Milleseicentotrenta, ossia il barocco. Non era facile per un artista vivere in quella Roma e basti pensare alle brighe di pittori francesi, rievocate da Wittkower, timorosi di perdere colpi e commissioni dai più quotati Giovanni da San Giovanni e Francesco Furini, negli affreschi Pallavicini a Monte Cavallo. Ben diversa la situazione di un grande della pittura come Vouet, il cui naturale talento e l’eclettica capacità di assorbire la lezione di veneti e bolognesi (da Veronese a Lanfranco, passando per Guido Reni e Guercino), si mescola con la rilettura speciale del luminismo caravaggesco, da far presagire la dote, propria del Reni, di prenderne le distanze, di saper frequentare uno stile senza farsi coinvolgere più di tanto. L’uomo aveva le qualità tecniche e umane per uscire indenne da molte pressioni; d’altra parte il livello delle sue relazione e protezioni è quello di un principe dell’Accademia di San Luca, destinato a rifondare l’arte francese e a formare un ambiente prima che botteghe e allievi, sul solco del primato del disegno e della grande maniera. Ambizioni alla Vasari, che Vouet rinnova nella grammatica e nel lessico del classicismo barocco, trasmettendo una cultura figurativa imponente a quel ministro plenipotenziario delle arti che fu Charles Le Brun. Resta qualche dubbio sul percorso vouettiano, intelligentemente sottolineato nella prefazione al libro da Pierre Rosenberg, ma sono lacune che danno ulteriore spessore alla sua personalità artistica, ricettiva, curiosa e amante della vita. Sarà poi la filologia a confermare o negare qualche sua opera, ad evidenziare l’apporto di collaboratori, a distinguere autografi da copie, repliche e manufatti spuri, senza intaccare la qualità profonda del personaggio. Notevole la fortuna critica del pittore, specie dalla fine degli anni cinquanta (senza tralasciare l’opera di Dimier, dal titolo emblematico, Histoire de la peinture française du retour de Vouet, 1926-27),  per poi ulteriormente intensificarsi dopo la grande mostra del 1990 (dovuta a Jacques Thuillier, con la collaborazione di Barbara Brejon e Denis Lavalle). Citato da Baglione, 1642, e oggetto di una vita di Félibien, 1695-98 (oltre alle trattazioni in Dezaillier d’Argenville, 1745-52 e Lépicié, 1752), è poi studiato da Voss, 1924, Longhi, 1943, peraltro partigiano piuttosto di Valentin e di un’idea anti accademica del realismo che non poteva guardare di buon occhio la maturazione progressiva del francese. Da menzionare inoltre la monografia di William R. Crelly, 1962, la mostra sul caravaggismo francese di Jean-Pierre Cuzin e Arnauld Brejon del 1973, oltre allo studio specifico di Georgette Dargent e Jacques Thuillier, Simon Vouet en Italie: essai de catalogue critique, comparso sulla rivista «Saggi e memorie di storia dell’arte», 1965. E’ interessante notare come l’iper selettiva, in quanto a monografie, Enciclopedia Universale dell’arte dell’Istituto per la Collaborazione Culturale e della Fondazione Giorgio Cini, dedichi per il Seicento pittorico francese biografie soltanto a Vouet, Poussin, Le Brun, La Tour e Le Nain.

 

          Ma veniamo al libro, composto di tre parti e un’appendice. La prima è dedicata agli artisti prossimi e contemporanei. Gianni Papi, in questo quadro, analizza i rapporti con gli artisti fiamminghi e olandesi, soprattutto con Gerrit van Honthorst (italianizzato, come d’uso, in Gherardo delle Notti, per la sua specializzazione in quadri notturni, con soggetti illuminati da candela), come pure Nicolas Régnier, Giusto Fiammingo e Jean Ducamps. Rivelatrici le tangenze stilistiche con l’Honthorst, ma anche con Antiveduto Gramatica,  che potrebbe essere una delle prime fonti del giovane Vouet. John Gash tenta di dipanare le fila di un annoso contenzioso attributivo: chi sia in effetti il pittore che si cela sotto il nome di Maestro del giudizio di Salomone. Roberto Longhi, che ha inventato nome e problema, pensava ad un caravaggista francese della cerchia di Simon Vouet, forse Guy François, non esente da influenze del Ribera. Si è fatto anche il nome di Gérard Douffet, mentre Papi recentemente ha rilanciato la tesi riberesca, arrivando all’identificazione con lo Spagnoletto. E’ uno dei temi del caravaggismo, come sottolinea Gash, di più difficile svolgimento, anche perchè sottende la generale problematicità di questo stile e il carattere ipotetico delle ricostruzioni dei cataloghi di artisti ben poco conosciuti biograficamente, in cui gli esiti discordanti sono spesso conseguenza d’un certo, per così dire, accanimento filologico. Erich Schleier mette a confronto Vouet e Lanfranco, ovvero due artisti che dell’eclettismo classicista hanno fatto una loro personale cifra. Le opere romane di Lanfranco in Sant’Agostino e ai Fiorentini denotano una capacità straordinaria di filtrare codici stilistici scalati lungo un secolo, come nei capolavori del Prado di Vouet, in cui si sente Raffaello, Giulio Romano, ma anche Correggio e gli emiliani moderni. Philippe Malgouyres tratta del rapporto di alunnato e confronto fra Charles Mellin e il nostro in Italia. La seconda parte del volume è dedicata a ricezioni e scambi; si apre con un intervento di Viviana Farina sul viaggio genovese di Vouet, dove il pittore realizzò il ritratto di Giovan Carlo Doria, mettendo a frutto la sua degna capacità introspettiva. Si analizzano altre opere con opportuni confronti con la complessa decorazione della cappella Alaleone di San Lorenzo in Lucina, parrocchia romana in cui abitava l’artista insieme a molti altri colleghi, fra cui lo stesso Poussin, che è sepolto nella chiesa. Alessandro Morandotti considera Vouet a Milano e la scuola lombarda: notevoli ritratti già in collezione Trivulzio e Archinto, rapporti col Cairo e Daniele Crespi. La terza parte è concentrata sui circoli artistici e intellettuali romani. Patrizia Cavazzini analizza l’ambiente in cui si muove Simon Vouet, principe accademico. Significativa la sottolineatura sulla grande diffusione di copie d’epoca, che deve far riflettere il conoscitore. Karen Serres parla dell’allegoria in Vouet e Valentin e nel circolo dei Barberini. Due capolavori fuori ordinanza quali L’Intelletto, la Memoria e la Volontà dei musei capitolini e Allegoria d’Italia di Villa Lante a Roma, sono sviscerati sul lato iconologico. Olivier Bonfait aggiunge una dotta dissertazione sul rapporto con le lettere presso i Barberini: poesia, teatro, allegoria e conoscenza. Stéphane Loire si sofferma sul tema centrale delle attribuzioni e delle datazioni: una cronologia ragionata che deve presentare onestamente una certa discontinuità stilistica che è tipica di Vouet e che probabilmente è da spiegarsi con l’apporto più o meno consistente di una bottega modernamente organizzata. Nell’Appendice Olivier Michel propone l’identificazione di Mastro Giacomo in Jacques Casell (verso 1585 - Roma, 1643), in relazione ai lavori in Santa Maria in Aquiro, offrendo uno spaccato anche documentario su uno dei misconosciuti artefici francesi (e fiamminghi) attivi a Roma anche dopo il 1627. Arnauld Brejon de Lavergnée tratta da par suo dell’importante ritrattistica di Vouet. Guillaume Kazerouni focalizza la sua attenzione sulle repliche d’atelier, a proposito di una terza versione di Giuditta e Oloferne d’entourage di Simon Vouet. Dominique Jacquot traccia un bilancio sull’esposizione di Nantes (poi Besançon). Chiudono catalogo delle illustrazioni, indice dei nomi e un utile indice degli artisti e delle opere. Nell’introduzione Olivier Bonfait ed Hélène Rousteau-Chambon insistono sul taglio di questi densissimi atti quale libro aperto, in parallelo alla mostra di Nantes e alle proficue discussioni tra studiosi in faccia alle opere. Vouet è un problema in progress della storia dell’arte che le ricerche di Papi e Vodret hanno rilanciato in tutta la sua complessità. Non aveva senso chiudere la fisionomia di un’artista così duttile e ricettivo in un marchio fisso da applicare alla categoria schematica “Vouet”. Il pittore, come molto acutamente indicano gli autori, è una sorta di Picasso del 1620, aperto a tutte le sollecitazioni figurative che gli provengono dal mondo magmatico della pittura romana, carrefour di personalità, culture, stili. Sarà questa incredibile flessibilità a farne il fautore dell’arte francese, un talento organizzativo d’artista che non tradisce il livello qualitativo. Non era questa l’attitudine principale di Raffaello deprecata da un Michelangelo solitario quanto Poussin?